Il Maggio Musicale apre la sua nuova casa a Firenze

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Evento irripetibile, l’inagurazione del nuovo Teatro dell’Opera di Firenze, una costruzione che si attendeva da oltre cinquant’anni, chiude egregiamente l’anno di celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Per una sera ci si lascia alle spalle sia le polemiche relative ai costi esosi del progetto, sia la causa tuttora in corso che sembrò a un certo punto minare la conclusione dei lavori.

Il gioiellino architettonico ideato dallo studio romano A.B.D.R., come forse non se n’erano ancora visti in Italia (anche considerando che l’auditorium di Ravello è ancora chiuso), dalla platea risuona di un’ottima acustica, morbida e calda, merito certo del legno di pero di cui è foderata la sala principale (l’unica già portata a termine). Tuttavia i loggionisti non saranno probabilmente soddisfatti poiché, a causa della loro progettazione, le due grandi alzate che costituiscono i palchi di primo e secondo ordine impediscono la visione reciproca con la platea. I curiosi non potranno dunque sbirciare socialite e mise delle dame fiorentine.

Il programma è quello classico delle inaugurazioni dove, si sa, la scelta è di norma ormai ristretta al classico Beethoven e a Mahler (Seconda Sinfonia), e qui si è prediletto il primo. Dopo i discorsi di rito, con un divertente fuori programma (Renzi ha consegnato la fascia da sindaco a Mehta per fargli tagliare il nastro), quel che conta è che l’orchestra qui si senta a casa: e lo si capisce fin dalla prima nota che risuona, dell’ouverture beethoveniana cosiddetta Leonore terza. Il risultato è un’ottimale coesione di tutte le sezioni e un bel suono. All’ouverture è accostato un brano, in prima esecuzione assoluta, commissionato dallo stesso Teatro del Maggio Musicale Fiorentino al poliedrico compositore fiorentino Sylvano Bussotti, intitolata Gegenliebe. L’espressione beethoveniana, ripresa dal lied Seufzer eines Ungeliebten und Gegenliebe sta qui a significare, come scrive lo stesso Bussotti, l’anelito a un sentimento corrisposto. E Gegenliebe è concepito come dialogo fra sonorità moderne e musica del passato, a cominciare dall’organico, un’orchestra di proporzioni beethoveniane, cui è aggiunta una nutrita sezione di percussioni, oltre al pianoforte in posizione centrale. Le citazioni musicali che affiorano (come quella del tema del Minuetto del Settimino op. 20), sono dunque rifusi e ripensati in un contesto musicale che fa ampio ricorso a sonorità ben distinte come il frullato dei fiati, il suono della celesta, o la presenza costante delle percussioni, ma sempre leggera.

Nella Nona Sinfonia, cast vocale di primo piano Iréne Theorin, Stella Grigorian, Michael Schade e Albert Dohmen, ottime voci, tra cui si distingue per chiarezza la Theorin. E’ stata una sinfonia equilibrata, di limpida chiarezza, anche se avremmo desiderato, specie nell’attacco dell’ultimo tempo, un po’ più di brio. Buona la prova del coro guidato da Piero Monti. Anche il parterre di vip, defezioni a parte, anche e inspiegabilmente a metà sinfonia, è concentrato, silenzioso; c’era un bel mood, si sente nell’aria.

Apparso originariamente su Sipario

Un Beethoven nuovo sul lago Michigan

Dell’International Beethoven Project, il cui primo festival si è tenuto a Chicago dal 14 al 18 settembre 2011, sorprende il desiderio senza confini di far convergere in un’unica sede più forme d’arte che ruotino attorno al compositore di Bonn.

Soddisfatto è il musicofilo esigente che ascolta: il Quartetto con pianoforte WoO 36 n. 3, la Sonata “Kreutzer” eseguita prima nella versione tradizionale, poi nella trascrizione per quintetto d’archi, i rarissimi Preludi per pianoforte in tutte le tonalità, la Grande Fuga nella versione per per pianoforte a quattro mani.

L’appassionato è incuriosito dall’Eroica e dalla Pastorale arrangiate per rock band (Reed Mathis of Tea Leaf Green & his Band).

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Oltre a una masterclass, due focus: Beethoven Today, mette in luce l’influsso e l’eredità beethoveniana nella musica contemporanea; il Bagatelle Project, un ciclo di venti nuove bagatelle composte sull’Inno alla gioia, interpretate da tre pianisti. Non solo uno spaccato dell’opera di Beethoven, ma anche il suo rapporto con altri compositori, e approfondimenti su tanti diversi generi.

Oltre alla musica, c’è di più: da un lato la commissione a dodici artisti contemporanei di nuove interpretazioni figurative dell’immagine di Beethoven – esposte nell’affascinante Chicago Urban Art Society, uno spazio post-industriale con una buona acustica, sede temporanea del festival per quest’anno -, dall’altro una tavola rotonda sull’iconografia del compositore, declinata nelle sue più diverse sfaccettature (James Green), dall’art nouveau (Alessandra Comini) all’interazione tra i ritratti tradizionali di Beethoven e quelli realizzati per il festival (Benedetta Saglietti –> piccolo momento pubblicità).

Ma, soprattutto, l’atmosfera rilassata di chi fa musica tra amici.

Ecco cosa mi ha raccontato il direttore artistico franco-americano, nonché pianista, George Lepauw.

A very beethovenian fan

Com’è cominciato tutto?

Da sempre amo profondamente e ammiro Beethoven e la sua musica. Recentemente la fortuna mi ha messo in contatto con James Green [curatore del nuovo catalogo Hess, tradotto in Italia da Zecchini], attraverso il comune amico Dominique Prévot, presidente dell’Association Beethoven France, che ha portato nel 2008 alla costituzione dell’International Beethoven Project (IBP). Il Beethoven Project Trio (con Sang Mee Lee al violino e Wendy Warner al violoncello) ha organizzato una serie di concerti culminati nell’esecuzione dei Trii Hess 47, Anhang 3 e op. 63 all’Alice Tully Hall del Lincoln Center di NY, incisi per Cedille Records. Lo scopo del progetto era raggiunto, ora bisognava portarlo nel futuro. L’attenzione ottenuta da parte del pubblico e da parte della stampa mi ha indotto a ideare un festival che rispecchiasse la mia visione delle arti nel ventunesimo secolo: l’IBP è stato il veicolo per crearlo, Beethoven l’ispirazione.

Come ti è venuta la pazza idea di mettere insieme musica, arte figurativa, danza, un reading, una tavola rotonda, una grande accademia e un concerto rock, in cinque giorni?

La pazza idea è nata perché volevo creare un tipo di esperienza per il pubblico che io stesso desideravo: un’atmosfera in cui si ascolta e si fa musica, circondati da una meravigliosa creatività e da persone di talento. Volevo una versione contemporanea del salon privato del diciottesimo e diciannovesimo secolo. Bisognava immaginare un modo per trasformare l’idea in grande adattandola a un festival pubblico.

Immortal Beloved, Rachel Monosov per Catinca Tabacaru

Quali sono i goal di quest’edizione?

Il più grande successo è stato trasformare il sogno in realtà: tante persone entusiaste si sono sentite ispirate dalla musica e dal luogo. Vorrei continuare a tenere strettamente saldata l’esperienza umana alla musica e all’arte, perché tutti siano consapevoli del processo creativo. La sfida per il futuro è tenere in equilibrio il successo e la necessità di avere spazi più ampi, restando sempre fedeli al nostro spirito e al bisogno vitale di avere un contatto diretto con chi ci sta di fronte.

Una curiosità: come sei riuscito a mettere insieme tante persone per lavorare all’idea?

Conosco la maggior parte di loro da qualche mese: abbiamo scoperto di condividere una certa visione dell’arte e ci siamo dedicati anima e corpo. Ho incontrato Catinca Tabacaru, responsabile della sezione arte e film, attraverso i comuni amici Mike Cahill (film maker) e Rachel Monosov (l’artista talentuosa che ha presentato la sua Amata immortale, nella foto sopra): quando ho capito che l’arte visiva sarebbe stata una parte importante del festival e lei ha accettato sapevo che il suo lavoro sarebbe stato un valore aggiunto al progetto. Molly Feingold, Director of Production, l’ho incontrata a giugno a un evento sponsorizzato dagli High Concept Laboratories, partner anche del festival. Aurélien Pederzoli, uno dei nostri violinisti più dotati, e David Moss, la nostra viola di punta, mi hanno aiutato nella programmazione e nel selezionare i musicisti. Sono amico da un paio d’anni di Robert McConnell, direttore musicale, Mischa Zupko, responsabile di Beethoven Today e Katherine Lee, cui fa capo la sezione educativa.

In Italia c’è preoccupazione riguardo agli sponsor, difficili da trovare. Com’è possibile organizzare un festival basandosi solo su quelli privati?

Trovare sponsor è una delle maggiori difficoltà di qualsiasi progetto creativo. Abbiamo fatto affidamento su donatori privati e sulla vendita di biglietti. La nostra squadra di supporters è cresciuta in questi quattro anni: hanno valutato il lavoro fatto e deciso di credere in noi. Tuttavia, la prima edizione è stata fatta con piccole cifre.

Cosa ci puoi dire dell’edizione 2012?

La scorsa edizione è stata incentrata sul tema Beethoven come uomo e come Musa; del prossimo tema verrà dato l’annuncio sul sito il 16 dicembre, giorno del compleanno di Beethoven. La rassegna avrà luogo in uno spazio più grande, più centrale, a Chicago. Ci piacerebbe molto portare questo festival in giro per il mondo, ma lo potremmo fare soltanto cercando un partner locale o appoggiandoci a un festival già esistente che voglia collaborare con noi. Se un’opportunità di collaborazione artistica verrà fuori, salteremo su quel treno!

Scritto per Sipario, n. 741.

Citofonare Beethoven al Piccolo Regio di Torino

L’idea di Susanna Franchi alla base di “Citofonare Beethoven” è nata alla Pasqualati-Haus, una delle tante case del compositore, sulla Moelker Bastei 8 a Vienna. Il testo di Alessandra Premoli fa narrare la vita di Beethoven al burbero, ma scaltro custode del museo (Bob Marchese) che interpella direttamente dal palcoscenico la folla di bambini assiepata in sala. “Cosa ci fate qui? – invita ad andarcene – Devo chiudere!”. E’ lo spirito di Beethoven, che si materializza in una penna d’oca scrivente e in altri oggetti animati, a intimare al custode di farci rimanere e a indurlo a raccontare. Oltre allo spirito di Ludwig, che più o meno come in vita ne fa di tutti i colori, il narratore è affiancato da un aiutante-accordatore, oltre che valido pianista (Federico Tibone).

La via scelta è facile, diretta: alla biografia sono accostate le composizioni più famose, ascoltate brevemente: sonate per pianoforte (dal vivo), sinfonie, Fidelio. La lettura della biografia snocciola fatti essenziali e dettagli importanti, in poco più di un’ora, senza pedanteria. “Siete immersi nella musica di Beethoven e neanche lo sapete!”, giura il custode. Da un lato lo spettacolo fa leva sulle esperienze del pubblico (il “Chiaro di luna” è anche la colonna sonora del videogioco “Resident Evil”, mentre l’aiutante si lancia in un’esilarante esibizione sulle note della Quinta Sinfonia in versione pop, rock, country, classica), dall’altro riesce a spiegare, ad esempio, la differenza fra Hammerklavier e clavicembalo.

L’impressione è che il custode conosca Beethoven come le sue tasche, e persino i suoi vizi a menadito: mangia per due, ama il vino rosso, disdegna la birra. E’ scontroso, ma anche lieve, il compositore dalla pessima calligrafia: mette in calce alle sue lettere dei canoni epistolari, che il pianista accenna allo strumento, dei giochi di parole e musicali, degli sfottò agli amici: “Schuppanzigh ist ein Lump” (“Schuppanzigh è un mascalzone”). I rapporti con le donne, con il nipote, con la nobiltà: niente è lasciato al caso o banalizzato. Sensibile e azzeccata l’idea di rendere acusticamente la sordità col suono degli acufeni, che tormentarono Beethoven tutta la vita, dal quale sboccia nello spettacolo l’“Inno alla gioia”. In rappresentazioni destinate a scuole e alle famiglie, il pubblico di qualsiasi età è sempre entusiasta quando gli si presenta uno spettacolo intelligente. Un solo rammarico: che il protagonista non sia riuscito a ottenere dallo spirito di Beethoven il nome dell’“amata immortale”.

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