Leggere una fiaba: Barbablù

Cari studentesse e studenti, è necessario premettere queste righe di ringraziamento perché quest’articolo senza di voi non avrei potuto scriverlo.

Abbiamo studiato il Castello di Barbablù durante un paio di lezioni al Conservatorio che si sono rivelate essere, per tutti noi, importanti: più del previsto. Bartók ci ha travolto colla potenza della sua opera: prima ci ha chiusi in casa (per studiare la partitura), poi ci ha fatti piangere e, infine, ci ha fatti pensare. Credo che Bartók abbia “vinto” perché ha cambiato un po’ le nostre vite.

Devo i miei ringraziamenti a chi ha dato il suo contributo fondamentale, ultimo solo in ordine di tempo, al mio studio di quest’opera: il direttore d’orchestra Marco Angius che l’ha diretta magistralmente al Teatro Verdi di Trieste, nel giugno 2024, e alla magnifica Isabel De Paoli che ha cantato il ruolo del titolo (in ungherese): è stato un privilegio per me poter entrare nel Castello insieme a loro.

Nella vita bisogna sempre dire grazie.

Questa partita non l’abbiamo vinta da soli: le cose migliori accadono sempre grazie a un lavoro di squadra.

Provengo da una famiglia di bravi insegnanti (di scuola dell’infanzia e primaria): non ho voluto, proprio per questo motivo, fare esattamente il loro stesso mestiere. Però, per un po’ di tempo, l’ho fatto anch’io.

Una mattina fui chiamata per una supplenza breve in una scuola materna: un posto coloratissimo, con una facciata piena di bellissimi murales che la facevano sembrare un po’ un centro sociale, come il poco distante Askatasuna, era una tipica scuola dell’Ottocento modernizzata.

Lessi “solo” una fiaba, pranzammo, portai i bambini a riposare nel pomeriggio. La maestra “vera” mi fece scegliere un libro e, mettendomi proprio al centro dell’aula, mi diede una sediolina. I bambini mi guardavano con occhioni curiosi, silenziosi.

Mi sentivo a disagio. Sapevo già allora che non volevo fare quel lavoro. Lo trovavo molto difficile e sentivo il fiato sul collo di una generazione di eccellenti insegnanti. Non volevo gareggiare: in un’ipotetica gara avrei anche perso, di sicuro. Ma cosa c’era di tanto complesso?

Per leggere una favola a dei bambini devi essere autorevole ed esserti guadagnata il loro rispetto (cosa che vale per tutte le persone a cui ho insegnato qualcosa): nell’istruzione superiore dai (o tendi a) dar il rispetto per scontato.

Il disagio derivava da una consapevolezza. Il peso della responsabilità del porgere un’immagine del mondo, mediata dalla fiaba, che per quelle bambine e bambini avrebbe potuto anche essere la prima immagine di quel tema. E magari sarebbe diventata persino indelebile.

Ieri, al Conservatorio, a delle e dei giovani adulti, ho letto di nuovo una fiaba.

L’immagine che ho portato loro (una violenza privata) non è stata la prima che gli adulti che avevo di fronte a me vedevano. Ciò – naturalmente – non rende meno importante il veicolare loro, al meglio delle mie possibilità, immagini e simboli – storicamente contestualizzati (la violenza nel diciassettesimo, diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo secolo non ha lo stesso significato di oggi e questo lo racconto brevemente qui sotto).

Nel primo semestre la lezione sul Barbablù cadde lo stesso giorno in cui fu indetto il minuto di silenzio per commemorare la morte di Giulia Cecchettin – non lo dimenticherò mai – minuto che, naturalmente, abbiamo osservato nella convinzione (strana, eh! noi siamo tipi bizzarri) che non ci sia alcuna differenza fra la musica e la vita: fuori e dentro le mura del Conservatorio, le cose da imparare a me sembra siano le stesse. Da quel giorno Bartók, visto attraverso gli occhi delle mie studentesse ha un suono molto diverso: attuale, preciso, ma non inequivocabile, non monodimensionale. Anzi problematico, aperto. Nei loro sguardi Barbablù sapevano già chi era: si interrogano se e cosa farci con quest’uomo. Se amarlo (come Judit), restare o fuggire, giocarci, denunciarlo, chiamare aiuto, ucciderlo, o qualsiasi altra scelta si faccia nel Castello: una scelta individuale, come insegnante, che non posso discutere. Posso però aiutarli (ragazze e ragazzi) a fare una scelta consapevole.

Partiamo da un semplice fatto: col matrimonio il marito era, di fatto, come se “comprasse” la moglie e una serie di diritti su di lei e sul suo corpo. La protagonista della fiaba di Perrault non avrebbe potuto uscire, scappare, dal Castello di Barbablù perché il divorzio non esisteva (e a parte il fatto che di rado s’abbandona il marito dopo la cerimonia – da notare le campane che ancora rintoccano all’inizio dell’opera, verso il 13° minuto, a matrimonio appena concluso ma già a listate a lutto, elemento che torna nella composizione di Ligeti, in memoriam di Bartók – vedi bonus).

Il delitto d’onore e il matrimonio riparatore – ad esempio – son stati aboliti in Italia nel 1981; e che il divorzio esiste nel nostro Paese dal 1974 (i più giovani non lo sanno).

Ogni prova “in pubblico” (sul palcoscenico o no; ma la classe è un piccolo palcoscenico) è difficile per chi legge, quando si tratta d’immaginazione e rappresentazioni simboliche, di affetti, di sessualità e di intimità, insomma della vita: sia proporre una fiaba ai bambini sia agli adulti.

La responsabilità del lavoro d’insegnante è tutta qui, credo: mettere le persone, e il loro vissuto (a volte non semplice), al centro.

Il compositore: Béla Bartók (1881-1945)


Barbablù nella storia della fiaba

Trama e guide all’ascolto dell’opera

Bernard Haitink, direttore; orchestra Berliner Philharmoniker

cd EMI

Il duca Barbablù: John Tomlinson

Judit: Anne Sofie von Otter

Voce recitante (solo nel Prologo): Sandor Elès

Leggi: Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli editore (sotto, pagine selezionate).

BONUS (1), musicale:

Pianoforte: Pierre-Laurent Aimard

BONUS (2), bibliografico:

Un grande classico: Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi editore.

Bonus (3): una delle lezioni di Barbablù (ma non l’unica).

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