Una dama di picche in tempo di guerra: Teatro alla Scala

La Dama di picche, opera di Pëtr Il’ič Čajkovskij rappresentata per la prima volta nel 1890, mancava da diciassette anni al Teatro alla Scala. Sebbene sia comunque possibile confrontare questa produzione con altre andate in scena altrove, forse ci si può limitare a chiedersi come e se sia cambiata la nostra percezione dell’opera tra la prima del 23 febbraio 2022 diretta da Valery Gergiev e la seconda rappresentazione diretta il 5 marzo da Timur Zangiev. Prima, in tempo di pace, e oggi, in tempo di guerra. La mancata presa di posizione di Gergiev nei confronti dell’aggressione militare russa in Ucraina ha messo sul podio Zangiev: un paragone tra i due mi parrebbe un’operazione poco sensata.

Mi chiedo piuttosto invece se la questione non sia un’altra: ovvero se la musica e l’arte in tempo di guerra mutino, così come noi siamo cambiati dalla mattina alla sera, vedendo amici o sconosciuti ucraini, sfollati, scomparsi o morti. Ed è probabile che nel complesso non ci siano state modifiche nel nostro atteggiamento nei confronti della Dama di picche di Čajkovskij, men che meno si siano sollevati dei dubbi dentro di noi sul compositore russo (in quanto russo), come nell’assurdo caso Dostoevskij-Bicocca che ha coinvolto suo malgrado lo scrittore Paolo Nori rivelando l’insipienza dell’istituzione. Ma, da qualche parte, nella nostra testa forse anche la percezione di quest’opera è diversa a causa della guerra. Domande suscitate da Čajkovskij e Puškin, da cui è tratto il libretto di Modest Čajkovskij, che ti porti a casa anche quando l’opera è finita: cosa accade a un’identità labile come quella di Hermann quando è offuscata dalla dipendenza dal gioco o da quanto egli crede debba compiere (arricchirsi attraverso le tre carte)? Ma anche che cosa è “russo”, oltre alla romanza di Polina e alla sua danza con le amiche nella scena del gineceo? Cosa significa per noi? Nella Dama l’unica guerra è quella fittizia fra i ragazzini (il coro di voci bianche diretto da Marco De Gaspari eccellente quanto quello istruito da Alberto Malazzi), capitanati dalla brava Beatrice Calori, guerra che suona diversa pensando che al fronte in Ucraina ci sono ragazzini veri che combattono e muoiono. L’addio all’infanzia, che introduce l’opera e che rende ancora più amara la vicenda intonata nella continuazione, sembra più sinistro oggi. Può darsi quindi che la musica non sia separata dalla realtà nella quale viviamo, quando e se ci interroga nel nostro privilegio: quello di essere vivi e di poterlo raccontare.

ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

Il cast vocale di questa Dama di picche è di rilievo: Najmiddin Mavlyanov (Hermann) interpreta in modo convincente un ruolo impegnativo che gli impone di cantare dall’inizio alla fine dell’opera, ha una voce salda e voluminosa. È al suo debutto alla Scala e al termine dello spettacolo viene accolto, come la protagonista e il direttore d’orchestra, da un’ovazione. Di pregio le prove della magnifica Elena Maximova (Polina), di Julia Gertseva, una Contessa che si imprime nella memoria, di Roman Burdenko (Tomskij) e di Alexey Markov, un tragico, melanconico Principe. Liza sembra creata per Asmik Grigorian: una protagonista che eccelle nell’interpretazione vocale, nell’immedesimazione nel personaggio e spicca inoltre per le qualità attoriali. I suoi sguardi, i movimenti, le interazioni con gli altri personaggi: è come se fosse nata Liza. Naturale, mai eccede nel drammatico, sensibile, fa vibrare di vita gli stati d’animo della protagonista. Lo si nota, ad esempio, nella scena della camera di Liza declinata in pizzo bianco e grandi cuscini, su cui spiccano i bei costumi di Malte Lübben, o nel duetto conclusivo con Hermann, già sprofondato nell’oscurità. La regia di Matthias Hartmann gioca per la maggior parte del tempo sulla contrapposizione tra bianco e nero, luci e ombre, ricorrendo a file di neon e pannelli semoventi e rispecchianti, in contrasto voluto con la ricchezza barocca del ballo mascherato. Non sempre sembra però essere coerente: peccando di ridondanza in alcuni casi (le multiple apparizioni del conte di Saint-Germain) e di didascalismo in altri (il fantasma della contessa proiettato sul velatino è parsa una soluzione poco efficace).

ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

Timur Zangiev, il direttore ventisettenne che ha curato le prove e dirigerà tutte le recite a seguire, ha preso saldamente in mano le redini di orchestra, cori e cantanti. Zangiev mette bene in luce quei momenti della Dama che ricordano il Čajkovskij ora cameristico, ora sinfonico e altrettanto efficacemente sa evocare la magia mozartiana nella festa del secondo atto. Dirige a mani nude, con un gesto largo, preciso; più contenuto nei primi due atti, si scalda nel terzo conferendo pathos e profondità prospettica. Il suo lavoro è stato apprezzato dall’orchestra e il risultato si sente.

Opera in tre atti e sette scene

Libretto di Modest Čajkovskij

Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2021/22
PIKOVAJA DAMA (LA DAMA DI PICCHE)
Opera in tre atti e sette quadri
Libretto di Modest Il’ič Čajkovskij
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij

Hermann Najmiddin Mavlyanov
Il conte Tomskij/Zlatogor Roman Burdenko
Il principe Eleckij Alexey Markov
Čekalinskij Evgenij Akimov
Surin Alexei Botnarciuc
Čaplickij Sergey Radchenko
Narumov Matías Moncada
Il cerimoniere Brayan Ávila Martínez
La Contessa Julia Gertseva
Liza Asmik Grigorian
Polina Elena Maximova
La governante Olga Savova
Maša/Prilepa Maria Nazarova
Il capo della banda dei ragazzini Beatrice Calori
Milovzor Olga Syniakova

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Timur Zangiev
Maestro del coro Alberto Malazzi
Maestro del Coro di voci bianche Marco De Gaspari
Regia Matthias Hartmann
Scene Volker Hintermeier
Costumi Malte Lübben
Luci Mathias Märker
Drammaturgia Michael Küster
Coreografia Paul Blackman
Aiuto regista Marco Monzini
Nuova produzione Teatro alla Scala

Nino Rota sul lettino dello psicoanalista Fellini

Rota e Fellini alla Sinfonica della Rai

Nel centenario della nascita di Federico Fellini, nato il 20 gennaio 1920, l’Orchestra Nazionale Sinfonica della Rai offre a Torino un doppio memorabile concerto (giovedì 8 e mercoledì 14 ottobre) che ripercorre le musiche dei suoi film composte da quel genio di Nino Rota. Musiche certo arcinote, anche se la possibilità di ripercorrere queste opere alla stregua di un approfondimento monografico è quanto mai rara e ghiotta per chi ama la musica e il cinema.

I concerti sono stati impaginati in modo diverso: il primo ha offerto il balletto completo dalle musica per il film La strada (1954), composto da dodici numeri quanto mai vari al loro interno; il secondo metteva in programma numerose suite dai film: Lo sceicco bianco, 1952, I vitelloni, 1953, La dolce vita, 1960, Satyricon, 1969, Le notti di Cabiria, 1957, Amarcord, 1973, Il Casanova, 1976, per concludere con Prova d’orchestra, 1979, film anche proiettato in apertura di serata, introdotto da Sergio Toffetti, in un cortocircuito surreale: (un’orchestra che dà un film che critica le eterne dinamiche che ci son al suo interno? Forse per convincerci che i problemi là descritti siano ormai acqua passata?) Chissà.

La bellezza di tale operazione sta naturalmente nel riuscire ad apprezzare in pieno le colonne sonore disgiunte dai film, ma anche nel poter intendere le musiche per film di Rota come un grande unicum zeppo di rimandi interni che fan pensare un poco ai Leitmotive wagneriani.

(Foto Più luce)

E l’Orchestra della Rai sembra fatta apposta per questo repertorio, perfettamente a suo agio, e ben diretta dal bravo Marcello Rota (l’omonimia è casuale) con braccio sicuro, gesto elegante, arguzia e gusto. Certamente il pubblico dovrebbe poter godere più spesso di concerti simili!

La strada è un film ambientato nel mondo del circo e degli artisti girovaghi, dove la musica è sì, strumento di lavoro, ma è anche inscindibile dalla vita. Il coreografo Mario Pistoni ideò in seguito un balletto ispirato al soggetto del film e Rota accettò di scriverne la partitura. (Qui Gilda Gelati nei panni di Gelsomina) 

Le musiche per il balletto dipingono un grande affresco sinfonico perfettamente autonomo dalla creazione filmica, dal quale è tuttavia scaturito: è certo, volendo dare una definizione, musica a programma, ma nel senso migliore del termine. Rota inventa temi che danno vita a veri e propri personaggi, come il motivo legato al numero del Matto, un sogno nel sogno, in una specie di gioco di scatole cinesi; e l’indimenticabile Gelsomina (il bravo soprano Cristina Mosca), una semi-muta che si esprime attraverso la musica in un mormorio, una specie di Sprechgesang senza parole.

Una partitura in cui il compositore assorbe e rideclina ex novo tante e diversissime esperienze musicali, anche geograficamente e cronologicamente lontane fra loro, sue contemporanee o antiche, alte o basse, in un mix che sarebbe piaciuto all’Umberto Eco di Apocalittici e integrati: lo Stravinskij dei tempi del Sacre, la bossa nova, il jazz, la musica delle balere romagnole, Puccini e Martucci, il foxtrot di importazione e i valzerini di provincia, Shostakovich e Prokofiev (e poi: esisterebbe il circo di Fellini senza la tragicità dei Pagliacci di Leoncavallo?). Rota fa proprie queste musiche disparate e le rifonde in tutto organico, in un modo che certamente sarebbe piaciuto ad Alfredo Casella (col quale Rota studiò a Roma). Rota, però, riesce ad assorbire e assimilare, trasformando le suggestioni dei colleghi compositori ancor meglio di Casella: come se, forse, la collaborazione di Fellini fosse stata determinante per dargli uno scopo, una direzione, gli avesse messo dei paletti che hanno giovato all’invenzione creativa.

Anselma Dell’Olio, autrice del bel documentario Fellini degli spiriti, uscito di recente nei cinema mi ha raccontato in un’intervista:

Fellini diceva: “Capisco i miei film quando ascolto la musica di Rota”. Sai che faceva di preciso Nino Rota? Il compositore di solito è chiamato a vedere le “giornaliere”, prima ancora del montaggio, per captare il mood. Ora, quando Fellini faceva vedere a Rota il girato, appena si spegneva la luce, Rota si addormentava; appena finite si svegliava, andava al pianoforte e componeva… Sembrava entrasse in trance

(Tutta l’intervista si legge qui).

E dunque, per scomodare l’Adorno dei Minima moralia, è come se le musiche per i film di Fellini fossero venute in sogno a Rota.

Fra i modi di dire mi è venuto in sogno e ho sognato ci sono di mezzo le ere storiche. Ma quale dei due è più vicino alla verità? Come non sono gli spiriti a mandare il sogno, così, d’altra parte, non si può dire nemmeno che sia l’io a sognare.

Minima moralia, Einaudi 20054, p. 227.

Meno organico il secondo concerto (che non segue, chissà perché, un ordine cronologico) il quale ha coperto le musiche per i film di Fellini che vanno dal 1952 (Lo sceicco bianco) al 1979 (Prova d’orchestra).

Se si immaginano queste brevi suite dai film come specie di ouvertures operistiche si può affermare, senza timore di esser smentiti, che Rota abbia appreso la più difficile lezione di Verdi: quella di saper condensare nella prima frase di un’ouverture tutto quello che seguirà nell’opera.

Nei due appuntamenti si può ben metter a fuoco quale siano state le trasformazioni della musica di Rota nel corso degli anni (e, per chi li conosca, l’evoluzione in parallelo dei film di Fellini). In questo secondo concerto fa da padrone Il Casanova, per la sua spiccata originalità (la musica di questo film non assomiglia a quella di nessun’altro, come se fosse una partitura di rottura o svolta) e anche per la sua durata (una suite di 20’, sui 46’ originari, si tratta comunque il brano più lungo della seconda serata, il 14 ottobre). Potrebbe sembrar ovvio a chi consideri la colonna sonora un compendio dell’opera filmica, ma davvero è qui lampante cosa la musica “dica”, o suggerisca, della sinossi, della sceneggiatura, dei costumi, della fotografia. Li ascoltiamo suonati dall’Orchestra della Rai, ma è come se li vedessimo.

Sin dal primo brano O Venezia, Venaga, Venusia il setting di Casanova è un brutto incubo che poche vorrebbero consapevolmente abitare. Nessuna donna si sottometterebbe felicemente a quest’incubo sonoro: non è un gioco (o, se lo è, finirà assai male per tutti) e non c’è traccia della leggerezza spensierata dell’eros, sia nel film sia nella musica, totalmente assenti.

L’uccello magico è un carillon caricato per esaudire solo i desideri del padrone (una psicosi musicale incentrata da capo a fondo su una ripetizione ossessiva di un tema angosciante che percorre il film e la partitura), una coazione a ripetere, un tic.

Il funerale dell’eros di Casanova è tutto nella geniale invenzione musicale della Poupée Automate, una sorta di bambola gonfiabile cui il seduttore rivolge le sue ultime, patetiche avance. E sebbene la scena geniale in Fellini sia visionaria, ci viene un dubbio: il denoument avviene prima in musica, nell’inconscio, prima che sullo schermo, nei nostri occhi.

Amarcord (1973) e Il Casanova di Fellini (1976) sono improntati all’autoanalisi, portando alla luce i fantasmi del regista e forse, per liberarlo, in senso catartico. «Fellini dichiara all’amico Rota in un colloquio radiofonico del 1979 (cito dal programma di sala Oreste Bossini):

La musica agisce ad un livello così profondo e inconscio che può diventare pericolosa. Con la musica si può andare in guerra, si possono fare battaglie, si possono convincere collettività intere, far piangere o esaltare. [..] L’intervento del ritmo a livelli psico-fisiologici molto profondi è un fatto estremamente misterioso, che non so bene con cosa ha a che fare. Io con la musica avverto sempre una specie di minaccia. [..] Ha qualcosa di ricattatorio, moralistico. [..] La musica mi incupisce, perché rappresenta la perfezione.

Rota è il mago in grado di tenere sotto controllo le forze oscure della musica, che spaventa Fellini nel momento stesso in cui lo soggioga».

Geniale il fuori programma: La passerella d’addio dal film 8 e 1/2. Archiviato il drammone erotico-psichiatrico-sentimentale di Casanova e gli stress sindacali e la pesantezza degli anni di piombo della Prova d’orchestra, come un prestigiatore il direttore Marcello Rota tira fuori dalla sua bacchetta un bis stralunato, leggiadro come un brano del Concerto di Capodanno (e con tutto il pubblico che applaude spontaneamente e – miracolo! – pure a tempo), ricordandoci che «una risata ci seppellirà»!

Benedetta Saglietti per il Giornale della Musica

(la recensione è stata pubblicata, in forma lievemente diversa, il 15 ottobre 2020)

Ballista-Canino e Beethoven: il formidabile trio (Mito 2020)

Ascoltando il duo Ballista – Canino suonare su due pianoforti a coda, si ha l’impressione che siano loro stessi un’orchestra in miniatura. Anzi, si esce spesso dal concerto con la certezza di aver colto, di brani celeberrimi, qualcosa che prima sfuggiva.

Dall’8 settembre 2005  quando il duo eseguì la versione d’autore di Stravinskij del Sacre, non ho più dubbi che ogni loro concerto sarà, come si dice, un’esperienza. Quel giorno il mix fu impareggiabile:Roman Vlad li introduceva presentando al contempo il suo libro Architettura di un capolavoro: analisi della Sagra della primavera di Igor Stravinsky (BMG Publications, 2005).

Il duo, che mi pare fosse sul palcoscenico insieme a Vlad de Enzo Restagno in veste di moderatore, lo osservava con attenzione. Quel che è sicuro è che lo spirito di Stravinskij quella sera aleggiasse sui presenti, soprattutto quando Vlad, con balzo felino, si fiondò sul pianoforte per accennare al tema che – si supponeva – a Stravinskij fosse giunto in sogno, come raccontiamo Giangiorgio Satragni e io, nella biografia Strawinski, scritta da Alfredo Casella (p. 22 nota 3). (Era stato lo stesso Stravinskij a raccontarlo a Vlad in non so più quale occasione). Ballista e Canino, dunque, suonarono il Sacre in modo tale da squarciare il velo di Maya e me ne tornai a casa un po’ più convinta del voler continuare la strada intrapresa, cioè studiare la storia della musica.

E poi ci fu il Triplo di Mozart con Roberto Issoglio, il 20 ottobre 2016, con l’Orchestra da camera Giovanni Polledro di Torino, diretta da Federico Bisio, un concerto da ricordare anche perché celebrava il 60° (!) anniversario della costituzione del duo pianistico Ballista-Canino.

Quello che non sapevo ancora è che di lì a poco si sarebbe sviluppata un’abitudine, conseguente a un colpo di fulmine: avrei ascoltato, più o meno con regolarità mensile, il Sacre e la Nona di Beethoven nella versione orchestrale o in trascrizione (su Amazon in mp3 o su Spotify)

Spotify

Ballista e Canino sono tra i pochi ad aver in repertorio questa trascrizione della Nona Sinfonia di Beethoven da molto tempo, anche se non lo troverete strombazzato ai quattro venti, e non lo leggerete nemmeno su Wikipedia.

Ero quindi pronta a stupirmi, ma devo ammettere, dopo quindici anni di ascolti credevo un po’ meno disposta alla sorpresa. E, volutamente, non raccoglierò tutto quanto ho da dire in questa pagina, considerando gli ascolti continueranno ancora, nel tempo, nei prossimi anni…

L’avvio della Nona trascritta da Liszt è asciutta e sintetica, ci lascia concentrare sulla struttura della partitura. Non ci sono famiglie di strumenti che potrebbero incantare gli ascoltatori coi molti colori dei loro suoni tentando di sedurlo: qui è tutto muscoli scattanti, una frenesia che formicola sin dalle prime pagine e che ricorda la voglia di fare un balzo del leone in gabbia o dell’orso di cui scrive De Vienney.

La Nona “di” Liszt ha meno gigantismo sonoro della Quinta Sinfonia trascritta per piano solo (qui suonata da Glenn Gould) sembra che l’agio di dispiegare la partitura orchestrale su due strumenti invece di uno, gli consenta di fare un piccolo passo indietro. C’è nella Nona tutto Beethoven, nota per nota: Liszt lo prende gentilmente per mano e ce lo avvicina, ma questa volta senza mettersi in primo piano (come spesso è solito fare). Si distinguono bene tutte le parti interne, in questa Nona, come se Beethoven-Liszt avessero appreso la lezione di Bach l’avessero trasfusa nell’orchestra e poi l’avessero riportata sul pianoforte (due, in questo caso).

© Gianluca Platania

L’Adagio molto (III movimento) suona questa sera come un corale bachiano: è canto allo stato puro, essenziale, tanto che si fatica a capire come agli ascoltatori coevi la musica vocale (che pure è 1/3 del suo catalogo) risultasse meno riuscita di quella strumentale. Ad ascoltare la Nona su questi due strumenti la memoria musicale compie dei viaggi circolari, cortocircuiti imprevedibili: dalla Sinfonia, sempre presente in un angolo della mente come immagine cui far costante riferimento, alla trascrizione per due pianoforti che stiamo ascoltando, per finire all’improvviso nel laboratorio delle Sonate per pianoforte (comprendendo quali esperienze pianistiche possano finire nella partitura orchestrale e come) e, dopo aver riflettuto sugli arnesi messi nella cassetta degli attrezzi durante l’esperienza sonatistica, di ritorno alla trascrizione. E questo Adagio diventa un dialogo platonico tra i due pianoforti, pura alchimìa, un tendere insieme verso il IV movimento, pur senza avvertire superficialmente alcuna urgenza pungente, c’è già qualcosa che “spinge e preme” (soprattutto ovviamente ne “Lo Stesso Tempo”, ultima parte di questo movimento) come scrive E.T.A. Hoffmann nella recensione alla Quinta Sinfonia.

L’accordo che apre il Presto diventa nella mente di Liszt e sotto le mani di Ballista e Canino fortissimamente espressionista – pare diventato un cluster! – non smussato dalle seduzioni strumentali, pura violenza sonora, preludio all’inizio dell’Inno alla gioia.

Qui, nel Presto, accade qualcosa di veramente strano: mancando le voci, in questo movimento le pause assumono una rilevanza molto dissimile dalla Sinfonia col coro e il quartetto di solisti che conosciamo. Le pause, adesso, sono davvero cariche di premonizioni. In questa zona rarefatta, trapunta di stelle, quando l’ordito musicale si fa meno fitto è lì che sentiamo un poco la mancanza della parola intonata, che la mente accenna, canticchia, desidera: quando invece la densità è maggiore la memoria del canto sembra farsi meno necessaria.

In questo caso, visto che siamo abituati da sempre ad ascoltare la Nona non disgiunta dalla sua parte vocale, parrebbe di poter dire: prima le parole – che suggeriscono irrimediabilmente la forma – e poi la musica.

Filippo Gorini a Mito: una non recensione

Tutto appare inconsueto in questa stranissima estate 2020.

Restare lontani dalla musica – esperienza mai accaduta prima – e paradossalmente (un segreto che ci si confida fra amici e addetti ai lavori, a malincuore) – “far fatica” a tornare in sala da concerto. Doverci risintonizzare. Disorientati e impauriti, non tutti hanno il desiderio di farlo. Ma “the show must go on”. Ho avuto il privilegio di ascoltare a due mesi di distanza lo stesso interprete nello stesso brano (Schubert, D. 894), in mutati luoghi e condizioni.

Se il tema dell’intero festival Mito Settembre Musica, nell’A.D. 2020, è “Spiriti” mai brano sembra più appropriato delle Geistervariationen di Robert Schumann che aprivano questo concerto.

Partiamo dal contorno. Elemento certo per misurare l’efficacia di un’esecuzione dal vivo è quanto in fretta ci si dimentichi dei dettagli esteriori che non hanno a che fare con la musica: le luci in sala, il caldo o il freddo, chi ci sta di fronte, chi ci accompagnava a concerto. In un certo qual modo, l’immaterialità della musica ci invita a considerarne solo l’essenza, tutto il resto conta meno (forse, non dovrebbe contare). Quando le condizioni esteriori contano, forse, c’è già qualcosa che non va.

Ieri pomeriggio, non c’è stato bisogno di molto sforzo, a dir il vero. Filippo Gorini è dentro la musica fin dal primo minuto: è il ventriloquo di Schumann, in questo momento (a quel matto di Schumann la metafora sarebbe piaciuta, ci scommetto). Si mette al suo servizio. In un certo senso “sparisce”, lasciando spazio, mettendo in luce soprattutto chi questa musica l’ha scritta.

Potremmo esser tentate di vedere una certa identificazione tra l’interprete e Schubert, che scrisse la sua Sonata “Fantasia” D. 894 a ventotto anni (tre in più di Gorini all’epoca di questo recital). Glissiamo. Pensare se il prodotto di uno spirito è frutto di un giovane o un uomo o un anziano avrebbe senso se riflettessimo per scansie temporali macro (ma che età ha uno spirito?). Non è un voler buttare a mare tutti i discorsi sul terzo stile, è che di un brano, considerato singolarmente, quasi mai l’età dell’autore aggiungerà qualcosa al risultato artistico o all’interpretazione. Molti musicisti, si sa, maturano in fretta. Per alcuni, come Mozart, la giovinezza non è mai esistita. Ogni anno della sua vita – scriveva Massimo Mila in un libro sulla Nona di Beethoven che tanto ha contribuito alla nostra formazione – è come quello dei gatti vale doppio o triplo; per Marc Augé la vecchiaia non esiste nemmeno).

Ph. Fabio Miglio

Questo essere dentro la musica fa sì che Gorini ci porga, senza tanti giri di parole, il “suo” Schubert che non assomiglia a quello di nessun altro: soprattutto è intriso di grande dolcezza, con dei volumi molto ben calibrati e una comprensione “del tutto” evidente in ogni sua parte. Struttura, colori, fraseggio tornito, ben fatto, pensato a lungo, con dedizione e, si azzarderà, amore.

Pensiamo al Minuetto: c’è dentro una leggerezza eterea, una spensieratezza giovanile che, come sempre in Schubert, prende le fattezze di un Länder viennese. C’è l’atmosfera lieve, tra la dolcezza e il leggermente ammiccante: “A” è un momento rustico, dal sapore un po’ campagnolo, beethoveniano, rude, squadrato, maschile; “B” è l’atmosfera che traspare da Il pranzo dei canottieri di Renoir. E l’Allegretto, infine, sparisce nel nulla, come un battito di ciglia, un soffio.

Pierre-Auguste Renoir, Il pranzo dei canottieri, 1880-1882, olio su tela, 129,5×172,5 cm, Phillips Collection, Washington

Ci si potrebbe chiedere che significherà, oggi, essere un giovane interprete (pur con tutta l’allergia delle etichette generazionali, fanciulli, uomini o donne, maturi, anziani)? Confrontarsi con altre decine – nel mondo, migliaia – di bravi pianisti, giovani quanto te, con dei critici arrugginiti da anni di ascolto (e che a malincuore – io stessa faccio pubblica ammenda – avranno poco il desiderio di abbandonare le proprie immagini interiori della musica che gli sono care in favore di nuove) e che hanno, qualche volta, poca inclinazione a risfogliare le partiture, che non sanno in che casellina collocarti per sciatteria o per disattenzione – troppi pezzi da scrivere, pagati troppo poco, scarsità di tempo – e, infine, far i conti con i pregiudizi di ascolto (è troppo vecchio o troppo giovane, è donna o uomo, è ateo o religioso).

Che poi i giornalisti musicali fossero un “po’ così”, o intrusivi o a disagio col talento, altre volte ingessati nel loro ruolo, l’hanno a suo tempo già insegnato benissimo Glenn Gould e Bruno Monsaingeon (a 0’46” la piaggeria della giornalista non è del tutto, realisticamente, insopportabile? Quante volte l’abbiamo vista? Quante volte ne abbiamo rinunciare alla piaggeria, noi dall’altra parte della tastiera?):

Un talento di questo tipo richiede, però, a chi lo ascolti di saper mettere in pausa il vorticare del mondo a cui apparteniamo, la cosiddetta “postmodernità”, per vedere cosa le nuove generazioni abbiano da dire sul repertorio. Quanto poco spazio sia loro riservato sui mass media, a meno che non abbiano una minigonna molto corta (Yuja Wang che naturalmente si può vestire un po’ come le pare), un taglio di capelli molto alla moda (l’organista punk Cameron Carpenter di cui ho già scritto), un improvviso successo social (cfr. Igor Levit come Twitter star)? Non sono tanto “notiziabili”, come si dice in gergo. C’è anche chi lavora sodo, portando a casa risultati eclatanti, come il BB Trust, ad esempio, o la Beethoven Competition, senza molti clamori. Questione di stile, si dirà.

Bisognerebbe avere il coraggio però di criticare ogni tanto anche chi ascolta, chi con le sue parole lascia un segno (forse), magari impreciso, poco ponderato, avventato. A volte, in tutti gli ambiti professionali, si dimentica di avere rispetto del lavoro altrui.

E il lavoro al pianoforte è un lavoro di grandissimo impegno, solitudine, difficoltà, competizione serrata, scarsi guadagni (almeno all’inizio). Certo, i mecenati riconoscono l’eccellenza come il cercatore d’oro le pepite, è un loro merito e un loro talento. Resta però da capire come traghettare tutto questo a chi sia loro coetaneo o più giovane, pena il rischio di scovare il talento purissimo, avendo però di fronte sempre meno interlocutori. In un contesto dove l’omogeneità sociale di chi suona, scrive e ascolta è un fatto a mio avviso drammatico e paurosamente lampante, il lavoro del critico potrebbe essere anche quello di riflettere sul contesto che abita, del dove, del come, del perché e del per chi le interpretazioni hanno luogo.

Il miglior servizio che si possa rendere a questo pianista, a mio avviso, non è congelare il pomeriggio di ieri, 12 settembre, in venti righe, ma di aprirgli le porte, di concedergli una chance per capire se l’immagine del “tuo” Beethoven (o qualsiasi altro compositore) possa o valga la pena di essere messo alla prova, d’ascoltare, andare ai suoi concerti, acquistare i suoi dischi. Insomma di sentire quello che ha da dire.

Conservatorio di Torino, Mito Settembre Musica 2020

Robert Schumann

Tema con variazioni in mi bemolle maggiore
“Geistervariationen” (Variazioni degli spiriti)

Franz Schubert

Sonata in sol maggiore op. 78 “Fantasia” D. 894

Una chiacchierata con Filippo Gorini

L’exploit di Filippo Gorini nel mondo della musica è avvenuto con la vittoria della celebre International Telekom Beethoven Competition Bonn (2015, primo premio, premio del pubblico e premio Beethoven-Haus), cui seguì l’incisione nel 2017 delle Variazioni Diabelli pubblicate per Alpha Classics.

Sospettando una comune affinità elettiva beethoveniana, lo incontro a Ravenna in occasione del suo recital alla Rocca Brancaleone, in una chiacchierata informale che nasce come proseguo di una conversazione svoltasi su Facebook con Alexander Lonquich e da quella prende le mosse.

Tuoi modelli di riferimento nell’interpretazione pianistica? Quali sono?

Più passa il tempo, più allargo il mio orizzonte di ascolto e la scelta degli interpreti da cui traggo ispirazione. Fondamentali per me: Pollini, sono letteralmente cresciuto ascoltandolo, Brendel, e per altri versi Richter e Edwin Fischer.

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