Antonio Ballista e Bruno Canino: a quattro mani nella musica

Ballista e Canino sono una vera istituzione italiana, il duo pianistico per eccellenza. La loro gioia di far musica non smette di stupirmi. Una lunga conversazione che attraversa molte storie della musica.

(Saglietti) Il vostro duo ha recentemente festeggiato sessant’anni di vita: cosa vi ha tenuto assieme in tutti questi anni?

(Ballista) La persistenza nel tempo del duo è dovuta anzitutto a una grande amicizia, una visione della musica affine, malgrado le diversità dei nostri temperamenti, e soprattutto al piacere di suonare insieme. Ce ne siamo accorti sin dal nostro primo incontro in Conservatorio nella classe di Antonio Beltrami, grande musicista che ci ha battezzati nel pianoforte a quattro mani, con Ma Mère l’Oye di Ravel.

(Canino) Il segreto è l’amicizia, ma siamo anche persone abbastanza differenti. La nostra attività è stata non molto intensa, questo ci ha salvaguardati e ha mantenuto il nostro rapporto fresco e vario.

(Saglietti)  Vi siete conosciuti al Conservatorio di Milano, mai più persi di vista. Quali erano le prime composizioni che eseguivate assieme da ragazzi? Come siete approdati a Beethoven/Liszt, di cui avete in repertorio la Nona Sinfonia per due pianoforti?

(Ballista) Parto alla lontana! Bruno e io eravamo voraci di musica e durante gli anni di Conservatorio prendevamo in prestito dalla biblioteca non solo opere (Wagner, Puccini, Verdi) che ascoltavamo poi per radio con lo spartito, ma anche quelle del Novecento storico (Petrassi, Malipiero, Giorgio Federico Ghedini, Casella, Dallapiccola) e non trascuravamo i compositori della cosiddetta Nuova Musica. Abbiamo avuto la fortuna di esser subito scritturati dalle mai abbastanza lodate Settimane Internazionali di Nuova Musica (1960-1968) di Palermo dove si eseguivano una gran quantità di prime esecuzioni assolute. Lì eravamo a contatto con tutto quanto di più nuovo veniva composto ed eravamo assai fortunati perché in quasi tutte le partiture c’era un pianoforte in orchestra o due pianoforti. Non c’era duo che suonasse queste partiture. Presto siamo stati quindi scritturati anche Oltralpe. La novità con cui ci facemmo presto conoscere fu anche quella delle trascrizioni che, in un periodo di Neoclassicismo (un po’ esasperato), non erano ancora molto praticate. Va fatta però una distinzione: mentre le trascrizioni d’opera erano molto popolari, sulle trascrizioni non operistiche gravava ancora un pregiudizio. Se le trascrizioni di Liszt/Beethoven o di Berlioz hanno un rispetto straordinario della partitura, le parafrasi operistiche son suscettibili di cambiamenti e riscritture che portano anche lontano dal testo originario (come nelle Réminiscences de Don Juan di Liszt che pure abbiamo suonato! Don Giovanni non va all’inferno, ma è celebrato come paladino dell’eros).

(Saglietti) L’altro vostro cavallo di battaglia è il Sacre: qual è la relazione tra la trascrizione di Liszt/Beethoven e quella di Stravinskij?

(Ballista) La qualità monocroma del timbro pianistico non presenta secondo me particolari effetti speciali. Sia in Beethoven sia in Stravinskij questa caratteristica consente nelle trascrizioni di mettere in evidenza la struttura che, privata dalla magia timbrica delle strumentazioni originali, diventano come una radiografia che ne mette in risalto la struttura. In Stravinskij le dissonanze del Sacre sono enormemente più dure dell’originale.

(Saglietti) È come una chiave diversa che apre comunque la porta?

(Ballista) Esattamente! Almeno una volta nella vita si dovrebbe ascoltarla! L’armonia è davvero molto in evidenza. La sua domanda mi fa pensare che sarebbe bello eseguire Beethoven e Stravinskij insieme nella stessa serata. Proprio in queste due opere, per la loro complessità, è realizzato in massimo grado l’effetto “foto in bianco e nero” in cui i contrasti sono esaltati.

(Canino) A proposito della relazione fra i due brani: sono trascrizioni con caratteristiche molto diverse. L’operazione di Liszt è stata, nei confronti di Beethoven, di grande chiarezza e trasparenza. Il Sacre invece non può cercare di ricreare, soprattutto dal punto di vista del volume sonoro, tutta la potenza dell’orchestra di Stravinskij. In questa trascrizione, poi, certi elementi sono omessi per motivi di coabitazione sulla stessa tastiera. Leggendo la partitura vedrà che alcuni passaggi sono scritti in carattere minore e si possono omettere. Mentre nella Nona siamo molto testuali, nel Sacre alcuni “aggiusti” sono possibili e, secondo me, necessari.

(Saglietti) Lei crede che questo abbia a che fare col fatto che la trascrizione di Beethoven è stata fatta da Liszt e quella di Stravinskij è una trascrizione d’autore?

(Canino) Si tratta di un fatto tecnico: Liszt ragiona per due pianoforti, ha a disposizione più spazio. Nonostante alcuni duo suonino il Sacre su due pianoforti, tutto sommato, il quattro mani dà maggiormente l’idea di questa lotta con una materia veramente esplosiva.

(Saglietti) Per tornare alla storia recente delle trascrizioni beethoveniane: si attenderà il 1967 per avere la Quinta e la Sesta incise da Glenn Gould. Horowitz nel 1988 rimpianse di non averle mai suonate in pubblico. Dichiarò al New York Times: “Sono grandi lavori per pianoforte, opere straordinarie. Ogni nota delle Sinfonie di Beethoven si trova nelle opere di Liszt.” Com’è spiegabile la tardiva incisione di queste opere e la loro quasi uscita dal repertorio?

(Canino) È che sono difficili! Michele Campanella in passato le aveva proposte tutte per l’Accademia di Santa Cecilia, mentre oggi sono un ascolto più frequente. Io stesso ho suonato abbastanza spesso la Quarta Sinfonia. Forse non sono entrate in repertorio perché le ritenevano operazioni antieconomiche, richiedono un grande impegno, ma hanno difficoltà a competere con la versione orchestrale.

Un aneddoto personale: sono cresciuto con queste trascrizioni. Tutte le domenica mattina le suonavo con mio papà (che di mestiere era ingegnere) a quattro mani: non ovviamente quelle di Liszt! Io le ho conosciute probabilmente prima in questa veste che in quella originale.

(Saglietti) Ballista consiglia di ascoltare queste trascrizioni almeno una volta nella vita. La Nona è un caso speciale però perché qui non c’è il coro. Questa è una vera mancanza o no?

(Canino) Forse nell’Ottocento le si intendeva ancora come un surrogato dell’originale. In un’epoca di facile accesso alla musica ritengo che le trascrizioni siano semplicemente un’altra cosa. Ricordo che il pianista Giovanni Bellucci ha proposto all’Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma la Nona di Beethoven per pianoforte solo, coro da camera e quartetto vocale.

[Saglietti: lo stesso Bellucci ora le ha in programma per pianoforte solo].

(Canino): Devo ammettere però che, se sento una mancanza nella trascrizione lisztiana della Nona, è quella degli archi nel terzo tempo. La mancanza del coro no: Bruno esegue magnificamente il solo della marcia del tenore, mentre quando io suono i recitativi del baritono, in effetti, vorrei alzarmi in piedi e cantarli io stesso!

(Saglietti) La musica postula a tal punto le parole che ti vien voglia di cantarle.

(Canino) Bisogna immaginarle quelle parole, specialmente: “Non più questi suoni!”

(Saglietti) Qual è il concerto, la tournée, il pezzo che vi hanno dedicato, il compositore con cui avete collaboratore che vi va di ricordare, cui siete legati in modo particolare?

(Canino) Le collaborazioni coi compositori sono state importanti: in particolare con Stockhausen e Berio. Ma di ogni concerto conservo un bel ricordo.

MiTo Settembre Musica

(Ballista) Uno dei momenti clou della mia vita musicale con Bruno è stata la serie di concerti in cui al Teatro Comunale di Bologna abbiamo eseguito l’opera completa per pianoforte a quattro mani di Schubert che mi ha procurato più grandi gioie musicali della mia vita (comparabili solo a quelle ricavate dall’accompagnamento liederistico). Importanti stimoli ci sono venuti dalla frequentazione con alcuni dei più originali compositori della seconda metà del secolo scorso: come non ricordare il rigore imposto da Stockhausen durante la tournèe di Mantra? O le esigenze dinamiche iper-realistiche delle sedute con Boulez? O le sollecitazioni paradossali di Kagel? E la regia sonora di Ligeti durante la registrazione del suo Monument – Selbstportrait – Bewegung? O le sollecitazioni di Niccolò Castiglioni che ci ha dedicato il suo delizioso Omaggio a Grieg. E ancora, le discussioni con Dallapiccola per le prove dei suoi Inni (per tre pianoforti) che abbiamo suonato a Strasburgo: sapeva mettere la musica in relazione con tutto lo scibile umano. O le innovazioni di Paolo Castaldi con Anfrage. Oppure le aperture del teatro di Sylvano Bussotti? A Palermo La Passion selon Sade fece scandalo e ci fu anche la protesta del vescovo per il titolo blasfemo. A Bordeaux invece ci fu un’irruzione del pubblico e fu chiamata la polizia.

(Saglietti) Il dissenso, che non trova molto spazio nella nostra epoca, lo chiamo i “pomodori del pubblico” che oggi non si tirano più agli artisti… Ma torniamo a voi…

(Ballista) Forse l’opera di maggior impegno virtuosistico come duo è stato il Concerto per due pianoforti e orchestra di Berio eseguito con la New York Philharmonic in prima assoluta sotto la direzione di Boulez: l’abbiamo poi ancora interpretato molte volte sotto i più grandi direttori.

(Saglietti) Infine, due parole sul Quatuor pour la fin du temps di Messiaen recentemente da lei interpretato a MiTo Settembre Musica con Giovanna Polacco al violino, Sergio Delmastro al clarinetto e Nikolay Shugaev al violoncello…

(Ballista) Al Tempio Valdese c’era un’atmosfera di intensa concentrazione sia da parte del pubblico sia da parte di noi musicisti. Specie il penultimo brano (“Vortice d’arcobaleni per l’Angelo che annuncia la fine del Tempo”) è un messaggio di autentica speranza. Il Quatuor è l’unico pezzo che arriva davvero a suggerire la coscienza cosmica.

Ballista-Canino e Beethoven: il formidabile trio (Mito 2020)

Ascoltando il duo Ballista – Canino suonare su due pianoforti a coda, si ha l’impressione che siano loro stessi un’orchestra in miniatura. Anzi, si esce spesso dal concerto con la certezza di aver colto, di brani celeberrimi, qualcosa che prima sfuggiva.

Dall’8 settembre 2005  quando il duo eseguì la versione d’autore di Stravinskij del Sacre, non ho più dubbi che ogni loro concerto sarà, come si dice, un’esperienza. Quel giorno il mix fu impareggiabile:Roman Vlad li introduceva presentando al contempo il suo libro Architettura di un capolavoro: analisi della Sagra della primavera di Igor Stravinsky (BMG Publications, 2005).

Il duo, che mi pare fosse sul palcoscenico insieme a Vlad de Enzo Restagno in veste di moderatore, lo osservava con attenzione. Quel che è sicuro è che lo spirito di Stravinskij quella sera aleggiasse sui presenti, soprattutto quando Vlad, con balzo felino, si fiondò sul pianoforte per accennare al tema che – si supponeva – a Stravinskij fosse giunto in sogno, come raccontiamo Giangiorgio Satragni e io, nella biografia Strawinski, scritta da Alfredo Casella (p. 22 nota 3). (Era stato lo stesso Stravinskij a raccontarlo a Vlad in non so più quale occasione). Ballista e Canino, dunque, suonarono il Sacre in modo tale da squarciare il velo di Maya e me ne tornai a casa un po’ più convinta del voler continuare la strada intrapresa, cioè studiare la storia della musica.

E poi ci fu il Triplo di Mozart con Roberto Issoglio, il 20 ottobre 2016, con l’Orchestra da camera Giovanni Polledro di Torino, diretta da Federico Bisio, un concerto da ricordare anche perché celebrava il 60° (!) anniversario della costituzione del duo pianistico Ballista-Canino.

Quello che non sapevo ancora è che di lì a poco si sarebbe sviluppata un’abitudine, conseguente a un colpo di fulmine: avrei ascoltato, più o meno con regolarità mensile, il Sacre e la Nona di Beethoven nella versione orchestrale o in trascrizione (su Amazon in mp3 o su Spotify)

Spotify

Ballista e Canino sono tra i pochi ad aver in repertorio questa trascrizione della Nona Sinfonia di Beethoven da molto tempo, anche se non lo troverete strombazzato ai quattro venti, e non lo leggerete nemmeno su Wikipedia.

Ero quindi pronta a stupirmi, ma devo ammettere, dopo quindici anni di ascolti credevo un po’ meno disposta alla sorpresa. E, volutamente, non raccoglierò tutto quanto ho da dire in questa pagina, considerando gli ascolti continueranno ancora, nel tempo, nei prossimi anni…

L’avvio della Nona trascritta da Liszt è asciutta e sintetica, ci lascia concentrare sulla struttura della partitura. Non ci sono famiglie di strumenti che potrebbero incantare gli ascoltatori coi molti colori dei loro suoni tentando di sedurlo: qui è tutto muscoli scattanti, una frenesia che formicola sin dalle prime pagine e che ricorda la voglia di fare un balzo del leone in gabbia o dell’orso di cui scrive De Vienney.

La Nona “di” Liszt ha meno gigantismo sonoro della Quinta Sinfonia trascritta per piano solo (qui suonata da Glenn Gould) sembra che l’agio di dispiegare la partitura orchestrale su due strumenti invece di uno, gli consenta di fare un piccolo passo indietro. C’è nella Nona tutto Beethoven, nota per nota: Liszt lo prende gentilmente per mano e ce lo avvicina, ma questa volta senza mettersi in primo piano (come spesso è solito fare). Si distinguono bene tutte le parti interne, in questa Nona, come se Beethoven-Liszt avessero appreso la lezione di Bach l’avessero trasfusa nell’orchestra e poi l’avessero riportata sul pianoforte (due, in questo caso).

© Gianluca Platania

L’Adagio molto (III movimento) suona questa sera come un corale bachiano: è canto allo stato puro, essenziale, tanto che si fatica a capire come agli ascoltatori coevi la musica vocale (che pure è 1/3 del suo catalogo) risultasse meno riuscita di quella strumentale. Ad ascoltare la Nona su questi due strumenti la memoria musicale compie dei viaggi circolari, cortocircuiti imprevedibili: dalla Sinfonia, sempre presente in un angolo della mente come immagine cui far costante riferimento, alla trascrizione per due pianoforti che stiamo ascoltando, per finire all’improvviso nel laboratorio delle Sonate per pianoforte (comprendendo quali esperienze pianistiche possano finire nella partitura orchestrale e come) e, dopo aver riflettuto sugli arnesi messi nella cassetta degli attrezzi durante l’esperienza sonatistica, di ritorno alla trascrizione. E questo Adagio diventa un dialogo platonico tra i due pianoforti, pura alchimìa, un tendere insieme verso il IV movimento, pur senza avvertire superficialmente alcuna urgenza pungente, c’è già qualcosa che “spinge e preme” (soprattutto ovviamente ne “Lo Stesso Tempo”, ultima parte di questo movimento) come scrive E.T.A. Hoffmann nella recensione alla Quinta Sinfonia.

L’accordo che apre il Presto diventa nella mente di Liszt e sotto le mani di Ballista e Canino fortissimamente espressionista – pare diventato un cluster! – non smussato dalle seduzioni strumentali, pura violenza sonora, preludio all’inizio dell’Inno alla gioia.

Qui, nel Presto, accade qualcosa di veramente strano: mancando le voci, in questo movimento le pause assumono una rilevanza molto dissimile dalla Sinfonia col coro e il quartetto di solisti che conosciamo. Le pause, adesso, sono davvero cariche di premonizioni. In questa zona rarefatta, trapunta di stelle, quando l’ordito musicale si fa meno fitto è lì che sentiamo un poco la mancanza della parola intonata, che la mente accenna, canticchia, desidera: quando invece la densità è maggiore la memoria del canto sembra farsi meno necessaria.

In questo caso, visto che siamo abituati da sempre ad ascoltare la Nona non disgiunta dalla sua parte vocale, parrebbe di poter dire: prima le parole – che suggeriscono irrimediabilmente la forma – e poi la musica.

Filippo Gorini a Mito: una non recensione

Tutto appare inconsueto in questa stranissima estate 2020.

Restare lontani dalla musica – esperienza mai accaduta prima – e paradossalmente (un segreto che ci si confida fra amici e addetti ai lavori, a malincuore) – “far fatica” a tornare in sala da concerto. Doverci risintonizzare. Disorientati e impauriti, non tutti hanno il desiderio di farlo. Ma “the show must go on”. Ho avuto il privilegio di ascoltare a due mesi di distanza lo stesso interprete nello stesso brano (Schubert, D. 894), in mutati luoghi e condizioni.

Se il tema dell’intero festival Mito Settembre Musica, nell’A.D. 2020, è “Spiriti” mai brano sembra più appropriato delle Geistervariationen di Robert Schumann che aprivano questo concerto.

Partiamo dal contorno. Elemento certo per misurare l’efficacia di un’esecuzione dal vivo è quanto in fretta ci si dimentichi dei dettagli esteriori che non hanno a che fare con la musica: le luci in sala, il caldo o il freddo, chi ci sta di fronte, chi ci accompagnava a concerto. In un certo qual modo, l’immaterialità della musica ci invita a considerarne solo l’essenza, tutto il resto conta meno (forse, non dovrebbe contare). Quando le condizioni esteriori contano, forse, c’è già qualcosa che non va.

Ieri pomeriggio, non c’è stato bisogno di molto sforzo, a dir il vero. Filippo Gorini è dentro la musica fin dal primo minuto: è il ventriloquo di Schumann, in questo momento (a quel matto di Schumann la metafora sarebbe piaciuta, ci scommetto). Si mette al suo servizio. In un certo senso “sparisce”, lasciando spazio, mettendo in luce soprattutto chi questa musica l’ha scritta.

Potremmo esser tentate di vedere una certa identificazione tra l’interprete e Schubert, che scrisse la sua Sonata “Fantasia” D. 894 a ventotto anni (tre in più di Gorini all’epoca di questo recital). Glissiamo. Pensare se il prodotto di uno spirito è frutto di un giovane o un uomo o un anziano avrebbe senso se riflettessimo per scansie temporali macro (ma che età ha uno spirito?). Non è un voler buttare a mare tutti i discorsi sul terzo stile, è che di un brano, considerato singolarmente, quasi mai l’età dell’autore aggiungerà qualcosa al risultato artistico o all’interpretazione. Molti musicisti, si sa, maturano in fretta. Per alcuni, come Mozart, la giovinezza non è mai esistita. Ogni anno della sua vita – scriveva Massimo Mila in un libro sulla Nona di Beethoven che tanto ha contribuito alla nostra formazione – è come quello dei gatti vale doppio o triplo; per Marc Augé la vecchiaia non esiste nemmeno).

Ph. Fabio Miglio

Questo essere dentro la musica fa sì che Gorini ci porga, senza tanti giri di parole, il “suo” Schubert che non assomiglia a quello di nessun altro: soprattutto è intriso di grande dolcezza, con dei volumi molto ben calibrati e una comprensione “del tutto” evidente in ogni sua parte. Struttura, colori, fraseggio tornito, ben fatto, pensato a lungo, con dedizione e, si azzarderà, amore.

Pensiamo al Minuetto: c’è dentro una leggerezza eterea, una spensieratezza giovanile che, come sempre in Schubert, prende le fattezze di un Länder viennese. C’è l’atmosfera lieve, tra la dolcezza e il leggermente ammiccante: “A” è un momento rustico, dal sapore un po’ campagnolo, beethoveniano, rude, squadrato, maschile; “B” è l’atmosfera che traspare da Il pranzo dei canottieri di Renoir. E l’Allegretto, infine, sparisce nel nulla, come un battito di ciglia, un soffio.

Pierre-Auguste Renoir, Il pranzo dei canottieri, 1880-1882, olio su tela, 129,5×172,5 cm, Phillips Collection, Washington

Ci si potrebbe chiedere che significherà, oggi, essere un giovane interprete (pur con tutta l’allergia delle etichette generazionali, fanciulli, uomini o donne, maturi, anziani)? Confrontarsi con altre decine – nel mondo, migliaia – di bravi pianisti, giovani quanto te, con dei critici arrugginiti da anni di ascolto (e che a malincuore – io stessa faccio pubblica ammenda – avranno poco il desiderio di abbandonare le proprie immagini interiori della musica che gli sono care in favore di nuove) e che hanno, qualche volta, poca inclinazione a risfogliare le partiture, che non sanno in che casellina collocarti per sciatteria o per disattenzione – troppi pezzi da scrivere, pagati troppo poco, scarsità di tempo – e, infine, far i conti con i pregiudizi di ascolto (è troppo vecchio o troppo giovane, è donna o uomo, è ateo o religioso).

Che poi i giornalisti musicali fossero un “po’ così”, o intrusivi o a disagio col talento, altre volte ingessati nel loro ruolo, l’hanno a suo tempo già insegnato benissimo Glenn Gould e Bruno Monsaingeon (a 0’46” la piaggeria della giornalista non è del tutto, realisticamente, insopportabile? Quante volte l’abbiamo vista? Quante volte ne abbiamo rinunciare alla piaggeria, noi dall’altra parte della tastiera?):

Un talento di questo tipo richiede, però, a chi lo ascolti di saper mettere in pausa il vorticare del mondo a cui apparteniamo, la cosiddetta “postmodernità”, per vedere cosa le nuove generazioni abbiano da dire sul repertorio. Quanto poco spazio sia loro riservato sui mass media, a meno che non abbiano una minigonna molto corta (Yuja Wang che naturalmente si può vestire un po’ come le pare), un taglio di capelli molto alla moda (l’organista punk Cameron Carpenter di cui ho già scritto), un improvviso successo social (cfr. Igor Levit come Twitter star)? Non sono tanto “notiziabili”, come si dice in gergo. C’è anche chi lavora sodo, portando a casa risultati eclatanti, come il BB Trust, ad esempio, o la Beethoven Competition, senza molti clamori. Questione di stile, si dirà.

Bisognerebbe avere il coraggio però di criticare ogni tanto anche chi ascolta, chi con le sue parole lascia un segno (forse), magari impreciso, poco ponderato, avventato. A volte, in tutti gli ambiti professionali, si dimentica di avere rispetto del lavoro altrui.

E il lavoro al pianoforte è un lavoro di grandissimo impegno, solitudine, difficoltà, competizione serrata, scarsi guadagni (almeno all’inizio). Certo, i mecenati riconoscono l’eccellenza come il cercatore d’oro le pepite, è un loro merito e un loro talento. Resta però da capire come traghettare tutto questo a chi sia loro coetaneo o più giovane, pena il rischio di scovare il talento purissimo, avendo però di fronte sempre meno interlocutori. In un contesto dove l’omogeneità sociale di chi suona, scrive e ascolta è un fatto a mio avviso drammatico e paurosamente lampante, il lavoro del critico potrebbe essere anche quello di riflettere sul contesto che abita, del dove, del come, del perché e del per chi le interpretazioni hanno luogo.

Il miglior servizio che si possa rendere a questo pianista, a mio avviso, non è congelare il pomeriggio di ieri, 12 settembre, in venti righe, ma di aprirgli le porte, di concedergli una chance per capire se l’immagine del “tuo” Beethoven (o qualsiasi altro compositore) possa o valga la pena di essere messo alla prova, d’ascoltare, andare ai suoi concerti, acquistare i suoi dischi. Insomma di sentire quello che ha da dire.

Conservatorio di Torino, Mito Settembre Musica 2020

Robert Schumann

Tema con variazioni in mi bemolle maggiore
“Geistervariationen” (Variazioni degli spiriti)

Franz Schubert

Sonata in sol maggiore op. 78 “Fantasia” D. 894

Digital curation: dietro le quinte di MiTo 2015 live tweeting e #ask le twitterinterviste

Nell’ambito della nona edizione del Festival MiTo Settembremusica 2015 ho lavorato con lo stellare social media team di Torino (Franco Carcillo e Mirko Corli, in regia).

Oltre all’immancabile live tweeting dal Teatro Vittoria per seguire tutto il Focus pianistico su Chopin e Skrjabin (qui il programma di sala), ho vestito i panni dell’inviata speciale, intervistando su Twitter alcuni degli artisti presenti al festival. Il formato dell’intervista breve, in 120 caratteri, ben si presta a poche, fulminee domande.

Veicolate dall’hashtag #ask ho curato tutti i “dietro le quinte” dell’accounti di MiTo Torino (che all’epoca rispondeva al nome: @MiToTorino).

Ho incontrato:

  • il controtenore Rupert Enticknap (14 settembre) in occasione dell’opera Akhnaten di Philip Glass; riassunto pubblicato anche su Facebook; si segue la discussione al link #askAkhnaten

 

  • Stefano Bollani (15 settembre) segui su: #askBollani

 

 

  • Solo su Facebook puoi leggere l’intervista a Kaspars Putniņš, direttore artistico e direttore principale del Coro filarmonico estone da camera (in occasione del concerto del 14 settembre).

Intervista a Kaspars Putniņš, Estonian Philharmonic Chamber Choir

Abbiamo intervistato Kaspars Putniņš, direttore artistico e direttore principale del Coro filarmonico estone da camera in occasione del concerto torinese di domenica 13 settembre, con musiche di Arvo Pärt e Morton Feldman.

Benedetta Saglietti: Il coro ha un repertorio immenso, da Pietro Abelardo a Pärt. Come direttore qual è il suo approccio alla musica corale contemporanea?

Kaspars Putniņš: La musica è una grande parte della mia vita e credo che sia molto importante essere in contatto con i compositori del nostro tempo, altrimenti la musica rischia di diventare una sorta di “museo”, o soltanto un bell’ornamento delle nostre vite. Le tendenze della musica contemporanea corale sono molto interessanti.

Coro estone
Photo: Kaupo Kikkas

BS: Quali difficoltà, se ci sono, sperimentano i cantanti nella musica contemporanea in confronto con il repertorio corale classico?

KP: Nella musica contemporanea il suono è certamente molto complicato. Ci sono diversi problemi tecnici, ad esempio, l’intonazione, che richiede uno speciale allenamento. Un altro esempio di difficoltà in questo repertorio è l’esecuzione di musica microtonale. Ma, dopo tutto, la musica è la musica, antica o contemporanea, ciò che conta è il significato, non i problemi tecnici.

BS: Questa è la terza volta che il coro è invitato al festival MiTo Settembre Musica a Torino: era già stato ospite nel 1994 e nel 2004. La seconda volta, al monastero di Bose, il coro interpretò il bel “Kanon Pokajanen”, sotto la bacchetta di Tõnu Kaljuste. La composizione è lunga quasi un’ora e mezza. Ma nel concerto torinese di domenica 13 settembre ci sarà spazio anche per “Rotkho Chapel” di Morton Feldman. Quindi penso suonerete una versione ridotta. Mi dica qualcosa di più in proposito.

KP: Bisogna dire prima di tutto che questo concerto a Torino [lunedì 14 a Milano] è molto speciale. È stato ideato da Enzo Restagno, il direttore artistico di MiTo e credo che la combinazione di questi due pezzi sia un’ottima idea. Di solito suoniamo il “Kanon” da solo. Il “Kanon” ha 9 movimenti che possono essere eseguiti separatamente. Ho dovuto soltanto scegliere la sequenza [Ode I, Ode VI, Kondakion, Ikos, Ode IX, Preghiera dopo il canone], ma certamente oggi suoniamo una versione più breve. I temi più importanti del canone sono preservati nella selezione che ascolteremo.

BS: So che il coro ha una relazione speciale con Arvo Pärt. Mi spieghi questo rapporto speciale che intrattenete con lui.

KP: Come lei sa sono diventato direttore artistico e direttore principale del Coro filarmonico estone da camera solo nel settembre 2014. Naturalmente l’ho incontrato diverse volte. Il coro ha eseguito la maggioranza dei suoi lavori, specialmente con il mio predecessore Tõnu Kaljuste. Abbiamo preso parte alle celebrazioni dell’ottantesimo compleanno di Pärt e a un grande progetto a Tallinn nel maggio 2015, dove c’è stata la prima mondiale della “Adam’s Passion” con musiche di Arvo Pärt e con la regia di Robert Wilson. Riguardo lo speciale legame con Pärt  è semplicemente… la vita! Succede!

BS: Proprio come nella vera cappella (a Houston, in Texas) la composizione di Morton Feldman’ “Rothko Chapel” parla alle persone di ogni credo, indipendentemente dalla loro religione.

In Italia questo pezzo è raramente eseguito (mai prima d’ora a Torino), e qualcuno ritiene che la musica di Feldman possa essere difficile, strana, esoterica. Può commentare brevemente questo lavoro?

KP: Non sono molto a mio agio nel parlare di musica, non sono un musicologo! Descrivere la musica con le parole è talvolta ridurla alle sole parole. Ma la sua musica ha il suo linguaggio!

BS: Intendevo chiederle qualche “chiave” per diventare ascoltatori migliori…

KP: Per prima cosa si dovrebbe rimanere molto concentrati e, allo stesso tempo, aperti alla musica. Devi semplicemente cercare di entrare dentro questo brano. Secondo, questo è un dialogo interiore, esattamente come quando uno parla a se stesso. La viola è la “persona”, la voce principale, in questo pezzo. Terzo, per me questo brano è una contemplazione della vita umana. Qualche volta compaiono dei momenti belli, come il meraviglioso solo del soprano. Quando questi momenti meravigliosi appaiono ti chiedi cosa siano. Non lo so. Forse ricordi d’infanzia. Il lavoro pittorico di Rothko e la musica di Feldman sono, secondo me, non esattamente simili, ma in dialogo fra di loro.

BS: Lei ha diretto questo brano molte volte, quindi sono curiosa: come reagisce il pubblico a questa musica? Che cosa pensa?

KP: Questa particolare combinazione (Arvo Pärt/Morton Feldman) è inusuale, quindi non lo so. Vedremo! Ognuno a delle qualità estetiche veramente peculiari, e spero che il pubblico ci segua in questo viaggio speciale.

BS: Grazie molte per aver messo il suo tempo a disposizione dei nostri lettori e del pubblico e per avermi concesso questa intervista!

Leggi tutta l’intervista, in inglese qui.