Giovanni Sollima, Enrico Dindo e Mario Brunello a Torino per MITO Settembre Musica 2020

07 Settembre 2020 – 15 Settembre 2020

Giovanni Sollima ha offerto, il 7 settembre, un concerto solista. Nonostante il palcoscenico del Conservatorio e la sala riempita dal pubblico distanziato appaiano immensi nel mondo stravolto post-covid, colpisce e resterà impressa anzitutto la dimensione intima e raccolta. Questa sera, per noi, si riannodano i anche fili del concerto dal vivo “al chiuso” (all’aperto tutto va bene, ci si sente meno vulnerabili e impauriti), i fili di un discorso interrotto con la musica, con gli interpreti e con se stessi.

Sollima ci porta in un viaggio, in quel suo modo peculiarissimo che lo contraddistingue e che ti fa pensare a ciò che credevi di conoscere in un modo diverso perché è declinato in una lingua assai personale. Un viaggio tra lande remote (il Trattenimento musicale sopra il violoncello di Domenico Galli, parmense attivo alla corte di Francesco II di Este, i Capricci di Dall’Abaco), note (Bach, Terza Suite in la minore), aspre e selvagge (Bloch e Stravinskij) e sconosciute (in prima esecuzione assoluta la Song dello stesso Sollima).

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Con “Song” dalla neonata opera Acquaprofonda dedicata all’inquinamento dei mari (che andrà in scena al Teatro sociale di Como, libretto di Giancarlo De Cataldo), ci immergiamo nel liquido amniotico dei live electronics attivati da Sollima stesso sullo smartphone, che il musicista/compositore regge insieme all’arco. Una mutazione genetica, un sogno marino degno del film La forma dell’acqua. 

Impaginato in modo completamente diverso è il recital di Enrico Dindo che si è tenuto, sempre nella sala del Conservatorio di Torino, l’11 settembre. L’unico punto di contatto tra i due concerti è Bach (Suite n. 1 in sol maggiore), a cui sempre si torna e ritorna, come scaturigine primigenia di tutto quanto segue.

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Si “torna” a Bach, scrivevo qualche riga più sopra, non solo rispetto al concerto di Sollima che quattro giorni fa lo ha ancora riportato sulle tavole del palcoscenico. Dindo interpreta stasera la Prima Suite, e noi torniamo con lui a Bach anche per un altro motivo, personale, questa volta. La domenica di Pasqua – giorno che molti non hanno potuto trascorrere con la loro famiglia per colpa della pandemia – Enrico Dindo ha scelto di offrire su Facebook un’esecuzione live della Terza Suite. Riascoltare lo stesso interprete alle prese con Bach, questa volta dal vivo, a così poca distanza di tempo, è stato come rivedere in prospettiva momenti che percepiamo lontanissimi e come avvolti da una spessa bruma. Quella domenica “piovuta dal cielo” sembra ora il dono di una sorta di famiglia allargata: la preziosa comunità (un’ecclesia che, come nell’antica Grecia, si riunisce a periodicità regolare) fatta da interprete e pubblico che si è dimostrata così fragile di fronte alle insidie della vita e della malattia. Il tempo staccato da Dindo, questa sera, è stato agilissimo e leggero, come se ci fossimo lasciati alle spalle delle pesantezze. 

È un lusso poter ascoltare a qualche giorno di distanza tre fuoriclasse dello stesso strumento che non potrebbero essere più diversi. Se si dovesse definirli con una parola Sollima sarebbe il selvaggio, Dindo il tradizionale e Brunello il mistico. Tutto il concerto di Mario Brunello del 15 settembre è improntato su un’idea di tempo circolare e su colori che virano allo scuro scurissimo che par di addentrarsi nelle Prigioni di Piranesi. Si entra attraverso Biber e la sua Passacaglia “L’angelo custode” tratta dalle Sonate del Rosario. Il ciclo, la cui origine è avvolta dal mistero, nacque probabilmente nell’ultimo quarto del Seicento per affiancare alla meditazione musicale a quella religiosa, dettato dell’esigenza di introspezione perseguita per mezzo di una serie di contemplazioni sul mistero del rosario.

(Qui suonata da Rachel Podger, al violino)

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Ballista-Canino e Beethoven: il formidabile trio (Mito 2020)

Ascoltando il duo Ballista – Canino suonare su due pianoforti a coda, si ha l’impressione che siano loro stessi un’orchestra in miniatura. Anzi, si esce spesso dal concerto con la certezza di aver colto, di brani celeberrimi, qualcosa che prima sfuggiva.

Dall’8 settembre 2005  quando il duo eseguì la versione d’autore di Stravinskij del Sacre, non ho più dubbi che ogni loro concerto sarà, come si dice, un’esperienza. Quel giorno il mix fu impareggiabile:Roman Vlad li introduceva presentando al contempo il suo libro Architettura di un capolavoro: analisi della Sagra della primavera di Igor Stravinsky (BMG Publications, 2005).

Il duo, che mi pare fosse sul palcoscenico insieme a Vlad de Enzo Restagno in veste di moderatore, lo osservava con attenzione. Quel che è sicuro è che lo spirito di Stravinskij quella sera aleggiasse sui presenti, soprattutto quando Vlad, con balzo felino, si fiondò sul pianoforte per accennare al tema che – si supponeva – a Stravinskij fosse giunto in sogno, come raccontiamo Giangiorgio Satragni e io, nella biografia Strawinski, scritta da Alfredo Casella (p. 22 nota 3). (Era stato lo stesso Stravinskij a raccontarlo a Vlad in non so più quale occasione). Ballista e Canino, dunque, suonarono il Sacre in modo tale da squarciare il velo di Maya e me ne tornai a casa un po’ più convinta del voler continuare la strada intrapresa, cioè studiare la storia della musica.

E poi ci fu il Triplo di Mozart con Roberto Issoglio, il 20 ottobre 2016, con l’Orchestra da camera Giovanni Polledro di Torino, diretta da Federico Bisio, un concerto da ricordare anche perché celebrava il 60° (!) anniversario della costituzione del duo pianistico Ballista-Canino.

Quello che non sapevo ancora è che di lì a poco si sarebbe sviluppata un’abitudine, conseguente a un colpo di fulmine: avrei ascoltato, più o meno con regolarità mensile, il Sacre e la Nona di Beethoven nella versione orchestrale o in trascrizione (su Amazon in mp3 o su Spotify)

Spotify

Ballista e Canino sono tra i pochi ad aver in repertorio questa trascrizione della Nona Sinfonia di Beethoven da molto tempo, anche se non lo troverete strombazzato ai quattro venti, e non lo leggerete nemmeno su Wikipedia.

Ero quindi pronta a stupirmi, ma devo ammettere, dopo quindici anni di ascolti credevo un po’ meno disposta alla sorpresa. E, volutamente, non raccoglierò tutto quanto ho da dire in questa pagina, considerando gli ascolti continueranno ancora, nel tempo, nei prossimi anni…

L’avvio della Nona trascritta da Liszt è asciutta e sintetica, ci lascia concentrare sulla struttura della partitura. Non ci sono famiglie di strumenti che potrebbero incantare gli ascoltatori coi molti colori dei loro suoni tentando di sedurlo: qui è tutto muscoli scattanti, una frenesia che formicola sin dalle prime pagine e che ricorda la voglia di fare un balzo del leone in gabbia o dell’orso di cui scrive De Vienney.

La Nona “di” Liszt ha meno gigantismo sonoro della Quinta Sinfonia trascritta per piano solo (qui suonata da Glenn Gould) sembra che l’agio di dispiegare la partitura orchestrale su due strumenti invece di uno, gli consenta di fare un piccolo passo indietro. C’è nella Nona tutto Beethoven, nota per nota: Liszt lo prende gentilmente per mano e ce lo avvicina, ma questa volta senza mettersi in primo piano (come spesso è solito fare). Si distinguono bene tutte le parti interne, in questa Nona, come se Beethoven-Liszt avessero appreso la lezione di Bach l’avessero trasfusa nell’orchestra e poi l’avessero riportata sul pianoforte (due, in questo caso).

© Gianluca Platania

L’Adagio molto (III movimento) suona questa sera come un corale bachiano: è canto allo stato puro, essenziale, tanto che si fatica a capire come agli ascoltatori coevi la musica vocale (che pure è 1/3 del suo catalogo) risultasse meno riuscita di quella strumentale. Ad ascoltare la Nona su questi due strumenti la memoria musicale compie dei viaggi circolari, cortocircuiti imprevedibili: dalla Sinfonia, sempre presente in un angolo della mente come immagine cui far costante riferimento, alla trascrizione per due pianoforti che stiamo ascoltando, per finire all’improvviso nel laboratorio delle Sonate per pianoforte (comprendendo quali esperienze pianistiche possano finire nella partitura orchestrale e come) e, dopo aver riflettuto sugli arnesi messi nella cassetta degli attrezzi durante l’esperienza sonatistica, di ritorno alla trascrizione. E questo Adagio diventa un dialogo platonico tra i due pianoforti, pura alchimìa, un tendere insieme verso il IV movimento, pur senza avvertire superficialmente alcuna urgenza pungente, c’è già qualcosa che “spinge e preme” (soprattutto ovviamente ne “Lo Stesso Tempo”, ultima parte di questo movimento) come scrive E.T.A. Hoffmann nella recensione alla Quinta Sinfonia.

L’accordo che apre il Presto diventa nella mente di Liszt e sotto le mani di Ballista e Canino fortissimamente espressionista – pare diventato un cluster! – non smussato dalle seduzioni strumentali, pura violenza sonora, preludio all’inizio dell’Inno alla gioia.

Qui, nel Presto, accade qualcosa di veramente strano: mancando le voci, in questo movimento le pause assumono una rilevanza molto dissimile dalla Sinfonia col coro e il quartetto di solisti che conosciamo. Le pause, adesso, sono davvero cariche di premonizioni. In questa zona rarefatta, trapunta di stelle, quando l’ordito musicale si fa meno fitto è lì che sentiamo un poco la mancanza della parola intonata, che la mente accenna, canticchia, desidera: quando invece la densità è maggiore la memoria del canto sembra farsi meno necessaria.

In questo caso, visto che siamo abituati da sempre ad ascoltare la Nona non disgiunta dalla sua parte vocale, parrebbe di poter dire: prima le parole – che suggeriscono irrimediabilmente la forma – e poi la musica.

Filippo Gorini a Mito: una non recensione

Tutto appare inconsueto in questa stranissima estate 2020.

Restare lontani dalla musica – esperienza mai accaduta prima – e paradossalmente (un segreto che ci si confida fra amici e addetti ai lavori, a malincuore) – “far fatica” a tornare in sala da concerto. Doverci risintonizzare. Disorientati e impauriti, non tutti hanno il desiderio di farlo. Ma “the show must go on”. Ho avuto il privilegio di ascoltare a due mesi di distanza lo stesso interprete nello stesso brano (Schubert, D. 894), in mutati luoghi e condizioni.

Se il tema dell’intero festival Mito Settembre Musica, nell’A.D. 2020, è “Spiriti” mai brano sembra più appropriato delle Geistervariationen di Robert Schumann che aprivano questo concerto.

Partiamo dal contorno. Elemento certo per misurare l’efficacia di un’esecuzione dal vivo è quanto in fretta ci si dimentichi dei dettagli esteriori che non hanno a che fare con la musica: le luci in sala, il caldo o il freddo, chi ci sta di fronte, chi ci accompagnava a concerto. In un certo qual modo, l’immaterialità della musica ci invita a considerarne solo l’essenza, tutto il resto conta meno (forse, non dovrebbe contare). Quando le condizioni esteriori contano, forse, c’è già qualcosa che non va.

Ieri pomeriggio, non c’è stato bisogno di molto sforzo, a dir il vero. Filippo Gorini è dentro la musica fin dal primo minuto: è il ventriloquo di Schumann, in questo momento (a quel matto di Schumann la metafora sarebbe piaciuta, ci scommetto). Si mette al suo servizio. In un certo senso “sparisce”, lasciando spazio, mettendo in luce soprattutto chi questa musica l’ha scritta.

Potremmo esser tentate di vedere una certa identificazione tra l’interprete e Schubert, che scrisse la sua Sonata “Fantasia” D. 894 a ventotto anni (tre in più di Gorini all’epoca di questo recital). Glissiamo. Pensare se il prodotto di uno spirito è frutto di un giovane o un uomo o un anziano avrebbe senso se riflettessimo per scansie temporali macro (ma che età ha uno spirito?). Non è un voler buttare a mare tutti i discorsi sul terzo stile, è che di un brano, considerato singolarmente, quasi mai l’età dell’autore aggiungerà qualcosa al risultato artistico o all’interpretazione. Molti musicisti, si sa, maturano in fretta. Per alcuni, come Mozart, la giovinezza non è mai esistita. Ogni anno della sua vita – scriveva Massimo Mila in un libro sulla Nona di Beethoven che tanto ha contribuito alla nostra formazione – è come quello dei gatti vale doppio o triplo; per Marc Augé la vecchiaia non esiste nemmeno).

Ph. Fabio Miglio

Questo essere dentro la musica fa sì che Gorini ci porga, senza tanti giri di parole, il “suo” Schubert che non assomiglia a quello di nessun altro: soprattutto è intriso di grande dolcezza, con dei volumi molto ben calibrati e una comprensione “del tutto” evidente in ogni sua parte. Struttura, colori, fraseggio tornito, ben fatto, pensato a lungo, con dedizione e, si azzarderà, amore.

Pensiamo al Minuetto: c’è dentro una leggerezza eterea, una spensieratezza giovanile che, come sempre in Schubert, prende le fattezze di un Länder viennese. C’è l’atmosfera lieve, tra la dolcezza e il leggermente ammiccante: “A” è un momento rustico, dal sapore un po’ campagnolo, beethoveniano, rude, squadrato, maschile; “B” è l’atmosfera che traspare da Il pranzo dei canottieri di Renoir. E l’Allegretto, infine, sparisce nel nulla, come un battito di ciglia, un soffio.

Pierre-Auguste Renoir, Il pranzo dei canottieri, 1880-1882, olio su tela, 129,5×172,5 cm, Phillips Collection, Washington

Ci si potrebbe chiedere che significherà, oggi, essere un giovane interprete (pur con tutta l’allergia delle etichette generazionali, fanciulli, uomini o donne, maturi, anziani)? Confrontarsi con altre decine – nel mondo, migliaia – di bravi pianisti, giovani quanto te, con dei critici arrugginiti da anni di ascolto (e che a malincuore – io stessa faccio pubblica ammenda – avranno poco il desiderio di abbandonare le proprie immagini interiori della musica che gli sono care in favore di nuove) e che hanno, qualche volta, poca inclinazione a risfogliare le partiture, che non sanno in che casellina collocarti per sciatteria o per disattenzione – troppi pezzi da scrivere, pagati troppo poco, scarsità di tempo – e, infine, far i conti con i pregiudizi di ascolto (è troppo vecchio o troppo giovane, è donna o uomo, è ateo o religioso).

Che poi i giornalisti musicali fossero un “po’ così”, o intrusivi o a disagio col talento, altre volte ingessati nel loro ruolo, l’hanno a suo tempo già insegnato benissimo Glenn Gould e Bruno Monsaingeon (a 0’46” la piaggeria della giornalista non è del tutto, realisticamente, insopportabile? Quante volte l’abbiamo vista? Quante volte ne abbiamo rinunciare alla piaggeria, noi dall’altra parte della tastiera?):

Un talento di questo tipo richiede, però, a chi lo ascolti di saper mettere in pausa il vorticare del mondo a cui apparteniamo, la cosiddetta “postmodernità”, per vedere cosa le nuove generazioni abbiano da dire sul repertorio. Quanto poco spazio sia loro riservato sui mass media, a meno che non abbiano una minigonna molto corta (Yuja Wang che naturalmente si può vestire un po’ come le pare), un taglio di capelli molto alla moda (l’organista punk Cameron Carpenter di cui ho già scritto), un improvviso successo social (cfr. Igor Levit come Twitter star)? Non sono tanto “notiziabili”, come si dice in gergo. C’è anche chi lavora sodo, portando a casa risultati eclatanti, come il BB Trust, ad esempio, o la Beethoven Competition, senza molti clamori. Questione di stile, si dirà.

Bisognerebbe avere il coraggio però di criticare ogni tanto anche chi ascolta, chi con le sue parole lascia un segno (forse), magari impreciso, poco ponderato, avventato. A volte, in tutti gli ambiti professionali, si dimentica di avere rispetto del lavoro altrui.

E il lavoro al pianoforte è un lavoro di grandissimo impegno, solitudine, difficoltà, competizione serrata, scarsi guadagni (almeno all’inizio). Certo, i mecenati riconoscono l’eccellenza come il cercatore d’oro le pepite, è un loro merito e un loro talento. Resta però da capire come traghettare tutto questo a chi sia loro coetaneo o più giovane, pena il rischio di scovare il talento purissimo, avendo però di fronte sempre meno interlocutori. In un contesto dove l’omogeneità sociale di chi suona, scrive e ascolta è un fatto a mio avviso drammatico e paurosamente lampante, il lavoro del critico potrebbe essere anche quello di riflettere sul contesto che abita, del dove, del come, del perché e del per chi le interpretazioni hanno luogo.

Il miglior servizio che si possa rendere a questo pianista, a mio avviso, non è congelare il pomeriggio di ieri, 12 settembre, in venti righe, ma di aprirgli le porte, di concedergli una chance per capire se l’immagine del “tuo” Beethoven (o qualsiasi altro compositore) possa o valga la pena di essere messo alla prova, d’ascoltare, andare ai suoi concerti, acquistare i suoi dischi. Insomma di sentire quello che ha da dire.

Conservatorio di Torino, Mito Settembre Musica 2020

Robert Schumann

Tema con variazioni in mi bemolle maggiore
“Geistervariationen” (Variazioni degli spiriti)

Franz Schubert

Sonata in sol maggiore op. 78 “Fantasia” D. 894

Come si ascolta la musica classica: all’Unione musicale di Torino

Al via la serie “Young”

Le nuove stelle della musica classica si ascoltano nella serie YOUNG: distribuita nel corso di tutta la Stagione 2019/2020 in sei concerti serali che hanno luogo al Teatro Vittoria introdotti dalle guide all’ascolto di Benedetta Saglietti.

Il menù completo

Le date:

Sabato 19 ottobre 2019: Stephen Waarts (violino) e Gabriele Carcano (pianoforte)

Sabato 16 novembre spazio al recital di Maddalena Giacopuzzi, pianoforte

Martedì 4 febbraio 2020 sarà la volta del Quartetto Indaco

Martedì 17 marzo 2020 Anastasia Kobekina (violoncello) con Jean-Sélim Abdelmoula (pianoforte)

Sabato 18 aprile 2020 il violinista tedesco Albrecht Menzel, accosterà il suo Stradivari del 1709 al pianoforte di Ran Jia

Infine, martedì 5 maggio 2020 chiusura con l’atteso ritorno del Trio Chagall.

African novels (la nuova composizione di Orazio Sciortino per il Festival estovest)

African novels al Museo Egizio di Torino

Una nuova composizione di Orazio Sciortino con Sonia Bergamasco nell’ambito del festival EstOvest

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