Fallimenti: editori, aspirapolveri e Maciste

Tre anni fa usciva il mio ultimo libro. Il libro sulla Quinta di Beethoven che Riccardo Muti e io avevamo visto nascere, amato e, in parte, scritto assieme.

In questi anni, molti estranei, conoscenti, amici e parenti hanno guardato puntate tv, letto recensioni, ascoltato trasmissioni radio: affettuosamente partecipi della piccola fama che ho acquisito grazie a questo libro. Culmine (o, meglio, tappa) di un lavoro su Beethoven che dura da sedici anni.

Un libro che, però, prima di esser pubblicato, è stato rifiutato da otto editori. La maggior parte delle persone deputate a giudicare il mio lavoro di ricerca credo, onestamente, avessero mai in vita loro ascoltato per intero, una volta, le Nove Sinfonie di Beethoven. Amen.

Altri, temo non sapessero di cosa stessi parlando e che ignorassero anche chi fosse E.T.A. Hoffmann (il celebre “papà” dello Schiaccianoci).

Altri, più razionalmente, mi dissero che non si confaceva al loro business.

Prima di una doppia parentesi (abbastanza deludente in Italia e invece – contro tutte le previsioni – assai proficua a Berlino) nel mondo editoriale, dalla parte di chi i libri li fa, e dopo il dottorato in Storia moderna, fatto tra Italia e Germania, tornavo nell’editoria bella fresca e rinvigorita. Ritornavo alla mia antica passione appena dopo un’esperienza nel marketing B2B della cosmesi di lusso: cercavano una “donna immagine” da mandare alle presentazioni, che sapesse tradurre all’impronta e in simultanea davanti a una platea di commerciali. Ero finita nella cosmesi dalla parte dei commerciali il giorno dopo in cui all’università mi dissero “non c’è posto per te”: esser stata marketing manager aveva cambiato per sempre il mio punto di vista. Imparai che la cosa più importante del mio mestiere era incassare i rifiuti. Girava questa bella storiella sui venditori di aspirapolveri porta a porta in America negli anni ’50. La conoscete?

“Quanti aspirapolveri hai saputo vendere oggi?” chiede un collega all’altro. “Non importa quanti ne ho venduti, importa solo quanti ‘no’ ho saputo incassare andando serenamente avanti”.

Dopo otto rifiuti ho continuato a credere nella validità del mio lavoro su Beethoven. Certo: avevo un super alleato che mi faceva sentire sicura di me stessa e delle mie potenzialità. Potevo sul serio dubitare della pubblicabilità di un testo, dieci anni dopo aver dato alle stampe il mio primo libro? Dopo che Gallimard, di sua spontanea volontà e senza neanche conoscere una parola di francese, mi aveva chiesto di scrivere per loro?

Inscalfibile, insieme a chi mi supportava, andavo avanti. Io, sola.

E, poi, insieme all’editore che ha creduto in me: Carmine Donzelli.

28 maggio 2020

E al mio avvocato, Luca Ghedina.

E al mio “main sponsor”: Guglielmo Borgiani.

E a mio (a quel tempo) marito che, oltre ad aver scelto di vivere quasi dieci anni della sua vita con me, si è letto (fortunato!) ogni riga che ho scritto, Giangiorgio Satragni.

E a Lilo Geick che mi perdona tutte le volte (mica poche!) che sbaglio le declinazioni (degli aggettivi, specialmente) in tedesco.

Quando scoppiò la pandemia e le cose si misero davvero male, tutti i miei cosiddetti “amici” e buona parte dei colleghi e delle colleghe saltarono però sul carro del più forte. Altri tirarono i remi in barca per sopraggiunta spossatezza.

Solo uno non mi ha mai voltato le spalle.

Morale della favola: non credete mai a quello che vedete. Non tirate conclusioni affrettate. Del “successo” degli altri e delle altre, davvero, non sapete niente.

Dite sempre la (vostra) verità, anche quando forse sentirete di esporvi inutilmente al pubblico ludibrio.

P.S.: Fu (anche) Riccardo Muti a insegnarmi di non avere vergogna dei propri fallimenti e fu un grande insegnamento. Con la bonomia che gli è propria, una sera raccontò che – in non so quale minuscola cittadina sperduta in Romagna – quando diresse uno dei suoi primi concerti nel teatro locale fu, purtroppo, ma lo disse sorridendo, costretto a far i conti con la “concorrenza”.

Ovvero: Maciste, l’attrazione del circo locale (come sapete in Romagna il circo è molto amato) che aveva programmato il suo spettacolo proprio quella sera, alla stessa ora.

E perse. Maciste contro Muti e la sua musica classica: non c’era proprio storia. Perlomeno, non in Romagna dove il circo è amatissimo (Fellini insegna). E, così, incassò il colpo. E andò avanti, dritto per la sua strada.

Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.

Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.

Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.

Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.

Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.

Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?

[…]

Mi sono accorto che nulla c’è di meglio per l’uomo che godere delle sue opere, perché questa è la sua sorte. Chi potrà infatti condurlo a vedere ciò che avverrà dopo di lui?

Qoelet (Ecclesiaste), 3

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