Ho insegnato per cinque anni nella scuola primaria, o elementare, come si diceva allora. Come, prima di me, fece mio nonno, in un piccolo paese della provincia di Asti: Castagnole delle Lanze.
Attilio era un maestro eccellente e a tutto tondo. Maestro elementare e maestro di musica: direttore di coro, organista. Fatto prigioniero durante la Seconda Guerra Mondiale dagli americani, dovette combattere con e per “gli avversari”. Vide (lui, ch’era uomo di cultura), l’abbazia di Montecassino bombardata. La cultura, perire.
E, nonostante tutto, sopravvisse. Pur non sapendo cosa fosse il magistero di mio nonno fu la classe capovolta, la flipped classroom. Al centro: studentesse e studenti. La loro unicità, il loro unico, irripetibile modo di imparare e la loro storia.

Muhammad Ali al tappeto
Una mattina, nell’anno scolastico 2005/2006, in una scuola elementare d’eccellenza, dopo la consegna di un’insoddisfacente prova di scienze, uno dei miei allievi mi rimproverò di non apprezzare i suoi sforzi e “di avercela con lui”.
Aveva ragione? Non lo so – mi sembrava una mera provocazione e mi colse di sorpresa -: ma, con le sue rimostranze riuscì a farmi vedere, come insegnante, dal di fuori e a interrogarmi sul significato del mio lavoro.
Stavo facendo la cosa giusta? (Non affronto qui direttamente il tema, troppo ampio, se sia giusto o sbagliato dar voti – in numeri, o lettere, come si faceva “ai miei tempi” – a discenti di seconda elementare…).
O potevo migliorare? O, ancora, semplicemente stavo comunicando (un voto) nel modo inadatto a lui? Avevo dei pregiudizi nei suoi confronti (e anche della famiglia da cui proveniva che non lo aiutava a esser uno studente preparato)?
A volte, concentrati solo sull’insegnamento (e sui tanti compiti burocratici che affliggono tutti gli insegnanti, delle scuole di qualsiasi ordine e grado), gli insegnanti riflettono poco su quello che stanno facendo. Lui, con la sua scenata plateale di fronte a tutta la classe – “sentiti in colpa, maestra, per come mi hai trattato! è responsabilità della mia classe sociale! dei miei problemi, di cui non ho colpa! dei miei genitori! – , mi fermò per un attimo. Un lungo, lungo attimo. Non lo stavo solo giudicando: lo stavo escludendo.
Non era solo un bambino deluso: né, il suo, certo un mero capriccio.
Di sicuro, nonostante i suoi modi violenti, colse nel segno.
Morale della favola? Non il mio disagio per essermi sentita, all’improvviso, e per la prima volta, una cattiva insegnante.
Non era l’insegnamento delle scienze. E non stavo “solo” consegnando a un allievo una prova scritta, dal mio punto di vista insoddisfacente. E non stavo neanche mettendo un freno ai capricci di uno scolaro:
in quel momento abbiamo capito, assieme, che – a volte – si perde.
Abbiamo perso insieme.
E, poi, imparato.
Ho imparato qualcosa che non dimenticherò mai.
Ovunque egli sia oggi, qualsiasi cosa faccia nella vita, gliene sarò per sempre grata.
Saper perdere è una delle lezioni migliori che si possono apprendere dalla vita. Non sempre te la insegnano a scuola.
Cos’ho imparato, io?
Siamo qui per cambiare. Non per segnare dei voti su un registro. A qualsiasi risultato arriverà un’allieva o un allievo stiamo facendo una strada, in parte assieme.
Quando un’allieva/allievo fallirà, il mio supporto umano resterà lo stesso. Deve restare lo stesso.
Anche grazie a questo allievo so che perdere non è per tutti.
L’arte di saper perdere è riservata solo ai migliori.
Benjamin Zander, per me grande ispirazione didattica, chiama questo il:
“regno della possibilità”.

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per molti anni mi sono occupato di errori di ortografia: prima da scolaro, poi da maestro, poi da fabbricante di giocattoli, se mi è permesso di chiamare con questo bel nome le mie precedenti raccolte di filastrocche e di favolette. Talune di quelle filastrocche, per l’appunto dedicate agli accenti sbagliati, ai «quori» malati, alle «zeta» abbandonate, sono state accolte – troppo onore! – perfino nelle grammatiche. Questo vuol dire, dopotutto, che l’idea di giocare con gli errori non era del tutto eretica.
Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo? Se si mettessero insieme le lagrime versate nei cinque continenti per colpa dell’ortografia, si otterrebbe una cascata da sfruttare per la produzione dell’energia elettrica. Ma io trovo che sarebbe un’energia troppo costosa. Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio, la torre di Pisa. Questo libro è pieno di errori, è non solo di ortografia. Alcuni sono visibili a occhio nudo, altri sono nascosti come indovinelli. Alcuni sono in versi, altri in prosa. Non tutti sono errori infantili, e questo risponde assolutamente al vero: il mondo sarebbe bellissimo, se ci fossero solo i bambini a sbagliare. Tra noi padri possiamo dircelo. Ma non è male che anche i ragazzi lo sappiano. E per una volta permettete che un libro per ragazzi sia dedicato ai padri di famiglia, e anche alle madri, s’intende, e anche ai maestri di scuola: a quelli insomma che hanno la terribile responsabilità di correggere, senza sbagliare, i più piccoli e innocui errori del nostro pianeta
(Gianni Rodari)
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