Al festival di Salisburgo tradizione e contemporaneità, da Verdi a Sciarrino: intervista a Markus Hinterhäuser

Il novantunesimo Festival di Salisburgo, in programma dal 27 luglio al 30 agosto 2011, offre come di consueto una variegata offerta musicale di alta qualità. Si apre con Le Nozze di Figaro dirette da Robin Ticciati (Erwin Schrott è Figaro) e si continua con Così fan tutte e Don Giovanni diretto da Yannick Nézet-Séguin, ripresa dell’intero ciclo con la regia di Claus Guth. Il primo agosto la straussiana Frau ohne Schatten sarà affidata alla bacchetta magica di Christian Thielemann, mentre il Macbeth di Verdi, la cui première è già ausverkauft, inaugura l’inedita collaborazione tra Riccardo Muti e Peter Stein.

Il Caso Makropulos di Leoš Janáček sotto la direzione di Esa-Pekka Salonen si ascolterà a partire dal 10 agosto, mentre Le Rossignol di Stravinskij e la Iolanta di Čajkovskij, nella quale Anna Netrebko interpreta la protagonista, guidata da Ivor Bolton alla testa dell’Orchestra del Mozarteum, saranno eseguite in forma di concerto il 15 e il 20. Sul fronte dei concerti le novità sono il Zyklus di nove appuntamenti dedicati a Šostakovič e le Mahler-Szenen, affianco alle collaudate Mozart-Matinee e ai Liederabend, nei quali si possono ascoltare artisti del calibro di Thomas Quasthoff e Matthias Goerne, che qui è di casa. Tra le molte orchestre ospiti l’8 e il 9 agosto ci sarà l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretta da Antonio Pappano che porta a Salisburgo una sinfonia londinese di Haydn e lo Stabat Mater di Rossini, con la superstar Netrebko. Oltre a tutto ciò la sezione Kontinent, dedicata alla musica contemporanea, in passato concentrata su di un singolo compositore, quest’anno ruota invece attorno a un tema che si collega a quello principale del Festival, il cui slogan è «risvegliare l’orecchio, gli occhi, il pensiero umano» (Luigi Nono).
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Abbiamo intervistato il sovrintendente Markus Hinterhäuser, dal 2014 a capo delle Wiener Festwochen, che quest’anno conclude il suo operato al Festival di Salisburgo.

Potrebbe ripercorrere per noi quanto realizzato e fare il punto del programma di quest’estate?

Quella di Salisburgo è una delle esperienze più belle che ho avuto finora. Ho iniziato la mia attività al Festival nel 1993, quando andò in scena il Prometeo di Nono, che torna quest’anno – a dirigerlo è ancora Ingo Metzmacher – a suggello del lavoro svolto. Anche Neither di Morton Feldman è, similmente a quella di Nono, una “tragedia dell’ascolto”. L’altra opera centrale del programma è il Macbeth di Sciarrino (il 4 agosto) accostata al Macbeth di Verdi (il 3) diretto da Muti. È un privilegio per il pubblico poter ascoltare due opere di due grandissimi compositori italiani in contiguità temporale. Il dramma è centrale anche negli altri concerti del Fünfte Kontinent; il ciclo si conclude infatti con due quartetti per archi di Giacinto Scelsi (cui era dedicato il Kontinent del 2007) e con il terzo quartetto per archi di un compositore austriaco vivente, Georg Friedrich Haas, che verrà eseguito al buio. Accostando fra di loro personalità molto differenti come Nono, Sciarrino, Cage, Feldman, etc… il Kontinent è dunque incentrato sul contraddittorio.

Com’è cambiato secondo lei il pubblico in questi anni?

Certo non si tratta di offrire soltanto un festival di musica contemporanea ma di mostrare, attraverso una sorta di grammatica musicale, come essa non nasca isolata nel nostro tempo, ma derivi dalla storia della musica precedente e giunga fino a noi. Per imprimere una forte linea artistica a un festival bisogna anche chiedere qualcosa al pubblico. Il racconto universale musicale può essere compreso nelle sue intime connessioni storiche: chi trasmette ciò deve tener presente anche della personalità dei luoghi in cui la musica viene eseguita. (Grazie a Hinterhäuser l’incantevole Kollegienkirche è il luogo deputato alla musica contemporanea opportunamente rimodellato per la sua esecuzione). Tutti questi elementi concorrono a far scoprire la forza oracolare della musica.

    Prestissimo e senza confini: una chiacchierata con Marco Rizzi

    Marco Rizzi
    Il 2008 comincia bene per il violinista Marco Rizzi: alla sua intensa attività concertistica si affiancano nuovi impegni didattici all’estero, comel’incarico presso la prestigiosa Escuela Superior de Musica Reina Sofia di Madrid. Siamo andati ad intervistarlo. Partiamo dall’inizio: perché la scelta del doppio diploma?

    Dopo il diploma al Conservatorio di Milano e gli studi condotti all’Accademia Stauffer di Cremona, ho conosciuto Wiktor Liberman e ho deciso di andare a studiare con lui ad Utrecht: cercavo un confronto e sentivo l’esigenza di perfezionarmi all’estero, un certo peso ha avuto il fatto che questa città è di piccole dimensioni, molto vicina ad Amsterdam e al Concertgebouw, anche se è stata principalmente la validità artistica del mio maestro che mi ha convinto a tentar la carta dell’espatrio.

    Quali sono le differenze che ha rilevato nell’insegnamento e nel mondo musicale olandese?

    I programmi di studio stranieri offrono un ventaglio di proposte più ampio che in Italia: ad esempio si può scegliere di specializzarsi in musica da camera o di diventare professori d’orchestra, e ci sono classi d’insegnamento dedicate a questo scopo. Preparano anche dal punto di vista pratico, ti spiegano come si scrive un curriculum, come si fa un contratto e tutto è concepito nell’ottica di una solida professionalità. Ciò è possibile perché esiste un ponte di collegamento fra l’attività didattica e l’impiego: si formano musicisti, ma si creano anche posti di lavoro.

    Dopo i premi vinti (Indianapolis, Queen Elizabethe Čaikovskij) com’è cambiata la sua carriera?

    Credo che i concorsi siano stati importanti, anche se sono solo un gradino in un percorso che si può costruire in modi diversi: è stato fondamentale esser stato per quattro anni violino di spalla nell’Orchestra dei Giovani dell’Unione Europea (Euyo), e poi contano le incisioni, la formazione che dà la musica da camera, la stima di artisti famosi, e il rapporto di fiducia che s’instaura con i direttori d’orchestra…

    Cosa l’ha portata alla decisione di affiancare l’insegnamento, alla professione già di per sé impegnativa di solista?

    Una delle ragioni è l’ottimo rapporto che avuto con i miei tre principali maestri Giuseppe Magnani, Accardo e Liber­man, e poi insegnare mi è sempre riuscito facile. La didattica è come l’elisir di lunga vita: evita di concentrarsi troppo su se stessi, e una controparte con cui confrontarsi è indispensabile… gli allievi regalano molto dal punto di vista umano e musicale, inducono a riflettere sul proprio lavoro e aiutano a rimanere freschi e propositivi nella musica che si fa…

    Lei tiene masterclass ai Rencontres Musicales Internationales di Enghien (Belgio) e all’Accademia Perosi di Biella, insegna alla HochschulefürMusik di Detmold (Germania) e ora anche alla Escuela Superior de Musica Reina Sofia di Madrid. Quali sono le peculiarità di queste istituzioni?

    L’Accademia Perosi è un buon esempio di realtà didattica italiana che va nella direzione giusta, lavorano bene, con serietà e passione. Le difficoltà oggettive che incontrano però credo stiano nel retroterra culturale del Paese, siano cioè più imputabili alla situazione generale della musica in Italia, che ad una precisa istituzione… Nelle due scuole in cui insegno all’estero, ho un punto di vista privilegiato, le trovo ottime dal punto di vista dei programmi, degli scambi internazionali, dei servizi offerti, come l’attrezzatura tecnologica: si registrano tutte le lezioni, e al Reina Sofia realizzano anche il podcast, anche se questa è una scuola privata, una realtà a sé… Non sono completamente esterofilo e non credo che altrove ci sia il migliore dei mondi possibili, ma è vero che in Italia ci sono sicuramente dei problemi, in primo luogo occupazionali. Va detto che l’età media in cui all’estero si ottiene un posto in orchestra è sui 25 anni e che un conto è poter contare sull’esistenza di duecento/trecento orchestre come in Germania, un altro sulle venti o trenta italiane!

    Che cosa occorre per insegnare all’estero?

    In Germania è richiesta innanzitutto la conoscenza del tedesco, il sistema di reclutamento dei maestri nelle Hochschule (che dipendono dalle regioni) avviene tramite bando pubblico. Una commissione, autonoma nei suoi poteri, ascolta un’esibizione del candidato, che sostiene poi due prove d’insegnamento e un colloquio. In seguito c’è la selezione e la redazione della lista dei tre migliori, che viene sottoposta all’approvazione del Ministero della Cultura e dopo s’instaura una contrattazione col vincitore; il sistema è validissimo perché il fine è avere nel proprio organico i migliori insegnanti in circolazione, che le scuole si contengono. A Madrid è stato più semplice: mi hanno chiamato loro e ho dovuto sostenere tre lezioni di prova prima di essere assunto.

    Quali suggerimenti darerebbe a uno studente di Conservatorio italiano?

    Consiglierei di continuare a studiare, ma di muoversi per tempo, senza aspettare il diploma o il biennio specialistico… perché il mondo della musica, di cui anche l’Italia fa parte, ma in misura minore, si muove molto velocemente, per cui siamo noi a doverci adattare ai ritmi degli altri. Bisogna tenersi informati, andare ai concerti, cercare di immaginarsi qualsiasi scenario, europeo o extraeuropeo. Dall’ottavo anno in poi è importante frequentare le master classes, conoscere diversi insegnanti, cercando quello che potrebbe seguirci in futuro. Il periodo che intercorre fra il diploma e il posto in orchestra è fatto di anni irripetibili, lo dico sempre ai miei studenti: non avrete mai più tanto tempo a vostra disposizione per studiare e dovete cogliere quest’opportunità!