L’abc di Alfred Brendel

Esistono pianisti che non amano il pianoforte?

Un domatore ama forse i suoi leoni?

abbecedarioAlfred Brendel,
Abbecedario di un pianista.
Un libro di lettura per gli amanti del pianoforte
Traduzione di Clelia Parvopassu
Piccola Biblioteca Adelphi

2014, pp. 156, € 12

Quando il bambino era bambino trascorreva intere settimane a esercitarsi nella calligrafia… e poi finì per dimenticarsene! Così l’abbecedario di Alfred Brendel rispolvera la memoria ai colleghi pianisti e li riporta un po’ alle loro prime lezioni di pianoforte (vedi alle voci «staccato», «tocco»). Ma questo è anche e soprattutto un libro di lettura per gli amanti del pianoforte. Come le altre opere di Brendel, ad es. Un dito di troppo, o l’insuperabile (forse intraducibile) Kleine Teufel. Neue Gedichte, 1999, anche l’abc ora pubblicato da Adelphi, che aveva già in catalogo le conversazioni con Martin Meyer, è scritto in quel suo stile inconfondibile, arguto, “mozartiano”, lo stesso che ne contraddistingue le interpretazioni e l’eloquio. Quindi è sempre un piacere leggerlo. E quindi va colta l’occasione di ascoltarlo il prossimo 11 maggio al Salone del libro di Torino.

Gustatene la lettura lentamente, con calma. Troverete un empireo che racchiude i compositori amati dall’autore, una lista di consigli per il ri-ascolto consapevole («Cantabile»: il secondo tempo del Concerto in fa minore di Bach nella registrazione di Edwin Fischer), una mappa della personalità di questo pianista; valgano qui per tutte le due voci «chiuse» e «umorismo».

È un libro nel libro che si potrebbe, in teoria, disfare come un puzzle, inventando altre voci usando lo stesso testo, ad esempio: Oratore: l’interprete è un oratore. Demone delle ottave: malattia che affligge alcuni pianisti che suonano le ottave senza sforzo. Gemelli eterozigoti: lo sono la forma e il carattere di un pezzo. Profani e puristi: a proposito del pedale. Maturazione: a che età matura un pianista? Metamorfosi: il pianoforte è un luogo di metamorfosi. Scultura: il pianista dovrebbe dar l’impressione all’ascoltatore di poter girare intorno a pezzo musicale come intorno a una scultura. E così via.

Se questo abbecedario fosse un brano musicale sarebbe la raccolta dei Moments Musicaux. Considerato l’inizio denso che via via s’alleggerisce si potrebbe suggerire una lettura al contrario dalla Z alla A.

Menzione speciale va ai disegni di Gottfried Wiegand – avvicinabili nella poetica a quelli di Franco Matticchio – che fanno da compendio, un po’ surreale, al testo. Suonare il pianoforte, a volte, è come un matrimonio di lungo corso e queste illustrazioni suggeriscono vie inedite per sgranchire cervello e dita. Anche inchiodando i tasti. Del resto, come già i membri del Fluxus ben sapevano, convivere col pianoforte a volte è arduo…

La dichiarazione d’amore all’America di Arbasino

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Alberto Arbasino,
America amore.

Adelphi, Milano 2011, 3ª ediz., pp. 867

America amore è un lungo, compiuto, emozionante spettacolo pirotecnico. Sulle prime, diciamo per tutta la sezione Harvard ’59, si potrebbe pure essere atterriti dall’idea che sia un lungo, serioso resoconto di un ragazzo di buone letture, dotato di grandi qualità, spedito negli Stati Uniti dalle sue conoscenze. Il tono però fa presto a cambiare, ed ecco che la voce narrante, quella voce che si legge nelle sue opere, alquanto celata nell’Arbasino uomo, con prepotenza ruba tutta la scena.

Ciò che colpisce non è tanto la quantità e qualità sorprendente d’incontri, dovuti anche alla fortuna (e che così lo stesso autore ha spiegato di recente: “Con illustri personaggi come Edmund Wilson o Mary McCarthy si scrive un garbato bigliettino o si telefona e così loro fissano un giorno o un’ora e si va a trovarli a casa loro, anche se è un po’ lontana”), ma la virtuosistica capacità di fondere tutto, d’imparare da ogni cosa, di vederla e rileggerla dandogli un valore all’interno della propria biografia. Quanto di più lontano dall’accademia: Arbasino prova un’urgenza verso la letteratura, la musica, i viaggi, tale da cannibalizzarle letteralmente, trasformandole in una parte necessaria di sé, che sulla pagina mescola con arguzia alla vita vissuta, cui la cultura è indissolubilmente intrecciata. A partire dalle sue personali costellazioni la cultura assume un senso profondo o, come piacerebbe tanto insegnare alla scuola di oggi, multidisciplinare.

Non molti libri oggi, a parte i classici, riescono a convincerti a seguire l’autore per 900 pagine: ma Arbasino ha dalla sua un entusiasmo incontenibile – anche, va detto, erotico -, una curiosità culturale senza fine, eclettica, un patrimonio vivo di conoscenze.

Il testo (un’autobiografia intellettuale?) funziona come storia culturale e personalissima critica, principalmente letteraria, ma anche teatrale e musicale. Tra le vette insuperabili l’episodio di Allen Ginsberg e Rudolf Nureyev allo Storkino di Milano, anche se talvolta i lunghi elenchi che hanno reso famoso lo stile di Arbasino in un tomo di queste dimensioni appesantiscono un po’ la lettura.

America amore è insieme una guida all’America, oggi non così dissimile da quella descritta (degli anni Cinquanta e Sessanta), un racconto profetico della contemporaneità e delle sue neurosi (si veda il capitolo sulla fabbrica “Alla General Motors” oppure il superlativo “Disneyland”, che non a caso è posto dopo un “Convegno”), e un canone di sicuro riferimento, altro che Harold Bloom. Qual è lo spirito dominante? In una conversazione con Gabriele Pedullà Arbasino ha detto: “Io al cinema ci sono sempre andato solo per divertirmi, come d’altronde è successo anche per i libri. La poesia l’ho letta perché mi piaceva, mica per dare degli esami alla facoltà di Lettere!”.

Ciò che Arbasino scrive di Edmund Wilson, calza perfettamente anche al primo: “È stato l’ultimo dei Grandi Letterati perché invece di far della letteratura sulla letteratura uno strumento specializzato e meschino di arrivismo accademico o di protagonismo agonistico, o di minuziosità delle stupidaggini, ha applicato alla cultura del nostro secolo un suo «tutto connettere» conoscitivo e interpretativo grandiosamente trasversale […] era l’opposto dell’erudito che si rivolge per lo più ad altri eruditi su temi tanto specialistici da tagliar fuori tutto il pubblico colto, o tanto cattedratici da servir solo per le cabale dei concorsi e dei ruoli (p. 795)”.

Scritto per 24letture, la fu rubrica de il Sole 24 ore online 11 gennaio 2012

Citata nella tesi di laurea di Chiara Poloni, Alberto Arbasino e America amore. L’opera enciclopedica e la riscrittura, p. 251, Relatore, Ch. Prof. Ricciarda Ricorda, Corso di Laurea specialistica in Filologia e Letteratura Italiana, Università Cà Foscari di Venezia, 2014/2015.

Readings to remember: Joseph Brodsky

lyrikline blog

Russian poet and essayist Joseph Brodsky (May 24, 1940 – January 28, 1996) was expelled from the Soviet Union in 1972, after 10 years of denunciation, imprisonment, hospitalization into a mental institution and years of not being allowed to publish nor to travel.
After he was put on a plane to Vienna in June 1972, he settled in America and never returned to Russia. In 1987, the American citizen Brodsky was awarded the Nobel Prize in Literature, receiving the Prize for Russian-language poetry.

Due to the fact that Brodsky wrote in Russian and English throughout his career, and was also self-translating his work occasionally, we thought it would be a good idea to come up with two clips today:

In this one, Joseph Brodsky reads his Russian poem Письма римскому другу [Letters To The Roman Friend]

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Find an English translation here.

In the second clip we see Brodsky reading his poem 

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Vodorosli: Fondamenta degli Incurabili, Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

Fondamenta degli Incurabili

Traduzione di Gilberto Forti. Piccola Biblioteca Adelphi, 1991, 18ª ediz., pp. 108
Molte lune fa il dollaro era a quota 870 e io ero a quota 32. Il globo era anch’esso più leggero – due miliardi di anime in meno -, e il bar della Stazione, in quella gelida sera di dicembre, era deserto. Lì, in piedi, aspettavo che venisse a prendermi l’unica persona che conoscevo in tutta la città. Il tempo passava, e lei non si faceva vedere. Ogni viaggiatore conosce questo guaio: questo misto di sfinimento e di apprensione. […]
Era una notte di vento, e prima che la mia retina avesse il tempo di registrare alcunché fui investito in pieno da quella sensazione di suprema beatitudine: le mie narici furono toccate da quello che per me è sempre stato sinonimo di felicità, l’odore di alghe marine sotto zero. Per alcuni può essere l’erba appena tagliata o il fieno; per altri, gli aromi natalizi degli aghi di pino e dei mandarini. Per me sono le alghe marine sotto zero – un po’ per via degli aspetti onomatopeici di un nome che associa in sé il mondo vegetale e quello acquatico (il russo ha una parola meravigliosa, vodorosli), un po’ per la vaga incongruenza e il nascosto dramma subacqueo che questo nome comporta.
Ognuno si riconosce in certi elementi; al tempo in cui aspiravo quell’odore sui gradini della Stazione i drammi nascosti e le incongruenze erano, decisamente, il mio forte.

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Ne ho letto un estratto qui al reading dedicato ai libri più tristi del mondo.

Francesco Guglieri, inventore della Notte dedicata ai libri tristi che ci rendono felici, ha letto nella stessa occasione questo passo:

Non ti confrontare con altri uomini di penna, ma con l’infinità umana: la quale è amara e triste più o meno quanto quella non umana.

È questo che deve suggerirti le parole, non già la tua invidia, non già la tua ambizione.

Iosif Brodskij, Dall’esilio, p. 19.

Menuhin apollineo e zen (“Musica e vita interiore”)

menuhinYehudi Menuhin,

Musica e vita interiore,

prefazione di Moni Ovadia,

Palermo, rueBallu Edizioni 2010, pp. 141, € 16.

Negli anni ’70 venne girato nello stile dell’epoca un documentario su Arthur Rubinstein: il pianista accoglieva il giornalista nel salotto di casa conversando amabilmente sulla propria vita.

Allo stesso modo Yehudi Menuhin si comporta in questo libro, formato da testi di diversa natura: discorsi pronunciati in varie occasioni, interviste, prefazioni a libri altrui. Dell’interprete apollineo dal profilo statuario si scopre il lato nascosto: il violinista dalla vita avventurosa che ebbe per maestro Enescu, per il quale hanno scritto Frank Martin, Bartók e Bloch, che ha avuto per numi tutelari Constantin Brunner e Pierre Bertaux.

L’uomo di cultura che sa parlare della musica e del silenzio, della meditazione e della didattica musicale, dell’Om e dell’Ecclesiaste, dei viaggi in India (celebre la sua amicizia con lo yogi B. K. S. Iyengar), del libro Lo zen e il tiro con l’arco, citando Hölderlin, Yeats, Shakespeare. È un piacere ascoltarlo. Non molti musicisti eccezionalmente dotati hanno anche il dono di una scrittura così lieve. Come in passato la scelta di rueBallu di pubblicare questo titolo, che fa parte della collana “hommes extraordinaires”, appare davvero azzeccata.

Il Giornale della Musica, 288, gennaio 2012, p. 25