In memoriam Sieghard Brandenburg (1938-2015)

Il 18 dicembre 2015, il giorno dopo il battesimo di Beethoven!, a Galmsbüll vicino a Flensburg, ci ha lasciati uno dei più grandi studiosi beethoveniani dei nostri tempi: Sieghard Brandenburg.

Tra i suoi contributi più notevoli la nuova edizione (dopo quella di Emily Anderson, I.L.T.E. Torino 1968) dell’epistolario beethoveniano, G. Henle Verlag, una pietra miliare della ricerca, tradotta in italiano da Luigi Della Croce e pubblicata da Skira – Accademia di Santa Cecilia. obituary

Sieghard Brandenburg è stato direttore del Beethoven-Haus dal 1984 al 2003. Ha curato la nuova edizione completa delle opere di Beethoven. Senza le sue ricerche, non sarebbero potuti esistere moltissimi libri oggi in circolazione su Beethoven.

Avevo avuto modo di conoscerlo personalmente, grazie a Barry Cooper, alla prima conferenza internazionale beethoveniana che si tenne a Manchester, nel 2012.

Non dimenticherò mai la gentilezza e la profonda umiltà di quel grande studioso.

È una grossa perdita per tutta la comunità scientifica e per gli studiosi beethoveniani in particolare.

A sinistra Sieghard Brandenburg, a destra Barry Cooper. Manchester 2012

L’Accademia di Santa Cecilia celebra Britten col “War Requiem”

L’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia è uno dei migliori ensemble italiani. L’esecuzione era […] curata in ogni singolo dettaglio. […] Anche la prova del coro è stata notevole, grazie al maestro del coro Ciro Visco […]. Ian Bostridge […] ha un’emissione potente, perfetta dizione, sciolto in passaggi densi di abbellimenti.

Recensione del War Requiem diretto da Antonio Pappano, con Anna Netrebko, Ian Bostridge e Thomas Hampson su Bachtrack.

war-requiem

© Michael Größinger

Le ultime lettere di Ludwig van Beethoven

epistolarioLudwig van Beethoven, Epistolario, vol. VI (1825-1827)

Milano, Skira – Accademia Nazionale di Santa Cecilia (coll. L’Arte armonica, Serie III, “Studi e Testi”) 2007, pp. 464, € 49,00

Volge al termine l’edizione italiana dell’epistolario beethoveniano tradotto da Luigi Della Croce, a cura di Sieghard Brandenburg, cominciata nel 1999 sotto gli auspici del Beethoven-Haus di Bonn. Il settimo volume, contenente gli indici, sarà disponibile in Italia all’inizio del prossimo anno; parallelamente l’edizione tedesca verrà completata da un ottavo tomo di cui si prevede l’uscita a breve. L’opera comprende le lettere scritte dal compositore e quelle a lui indirizzate, trascritte in un’accurata edizione diplomatica.

Le lettere di Beethoven sono una sorta di oscillografo che registra l’altalena fra il debordare di energia espressiva (che a volte ci restituisce un uomo capace di gesti di rara gentilezza) e, specie negli ultimi anni, il ritirarsi a tratti di essa. L’apparato di note, più corpose che nella storica edizione di Emily Anderson, facilita enormemente lo studio di una scrittura un po’ caotica, ma senza censure e pulsante di vita vera. È difficile avere a che fare con il compositore dopo il 1825, ed è una sorpresa non sempre piacevole scoprire il suo lato umano a volte ruvido. Reduce dall’insuccesso economico e dalle liti che seguirono le due grandi accademie del 1824 (prime esecuzioni della Nona Sinfonia), che furono causa della momentanea uscita di scena di Schindler, Beethoven è intento a organizzare nuovi concerti. È Karl Holz, primo violino del quartetto Schuppanzigh, a sostituire il factotum, quanto a numero di missive ricevute secondo soltanto al nipote Karl, vero protagonista del sesto tomo dell’epistolario, in cui fanno capolino anche alcuni amici di giovinezza: Ferdinand Ries, Franz Wegeler, Stephan von Breuning, l’arciduca Rodolfo.

La corrispondenza di poco meno di tre anni (372 lettere tra il 1825-27) è anche il registro di rapporti economici: offerte di dediche e trattative per la cessione dei diritti di pubblicazione delle opere condotte su uno scacchiere internazionale. C’è, ovviamente, molto di più.

Da un lato l’artista, non così felice della sua condizione freelance, o piuttosto di “precario”, come sembra suggerire il 1° gennaio 1825: «Lei sa che io sono costretto a vivere solo dei prodotti del mio spirito»; quello che sta scrivendo gli ultimi Quartetti per il principe Galitzin, il cui progresso nella composizione si può seguire passo passo; o, ancora, colui che cerca di far apparire (un po’ maldestramente) sulla miglior piazza possibile la sua Missa Solemnis. I giudizi degli amici sono benevoli: «le ultime [opere] − scrive Streicher − superano tutte quelle che ha scritto in precedenza»; Galitzin lo supplica: «non tardi, La prego, a farlo stampare, un capolavoro simile [il Quartetto op. 127] non deve restare neanche un solo istante nascosto», mentre Ries giura che la Nona Sinfonia: «è un’opera con la quale niente può reggere il confronto e se Lei non avesse scritto niente altro che questo, sarebbe già divenuto immortale».

Dall’altro lato l’uomo, il “padre adottivo” che esercita una crescente pressione sul nipote, con un misto di eccesso di amore e ricatti affettivi. Delle reazioni scomposte nei confronti di Karl, forse causate dai malanni che più volte in questi anni costringono Beethoven a letto, colpisce sia il loro materializzarsi in un profluvio di lettere, sia l’esiguità delle risposte: un climax che conduce al tentativo di suicidio; anche se, passata la tempesta, gli ultimi scambi fra i due contengono espressioni affettuose. Sono queste “montagne russe emotive” che non finiscono mai di stupire il lettore. Del resto Beethoven non fa nulla per nascondere la sua difficoltà con la comunicazione scritta, cui, non a caso, qui come nei precedenti volumi, fa da contrappunto un diffuso ricorso alla musica: così, ad esempio, la chiusura della lettera al dottor Braunhofer è l’occasione il 13 maggio 1825 per il canone «Doktor sperrt das Tor dem Tod, Note hilft auch aus der Noth» [il dottore sbarra la porta alla morte, la musica aiuta anche nel momento del bisogno]. Il primo presagio della fine risale però a qualche mese più tardi, «la falciatrice − scrive − non mi concederà in ogni caso molto più tempo», e diventa certezza in una commovente missiva rivolta a Wegeler (che non incontrava da 34 anni) il 17 febbraio 1827: «Il mio motto continua a essere: Nulla dies sine linea e, se ogni tanto lascio dormire la musa, è solo perché sia più vigorosa quando si risveglia. Spero di dare ancora al mondo qualche grande opera e poi di concludere il mio corso terreno da qualche parte, come un vecchio bambino […]».

Il Giornale della Musica, n. 254, dicembre 2008, p. 35