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Giulio Einaudi e l’arte di pubblicare
Una guida preziosa per chiunque s’interessi di editoria del Novecento.
Segnalazione di Federico Novaro
Le lettere di Verdi, l’uomo che parlava senza giri di parole
Giuseppe Verdi, Lettere.
A cura di Eduardo Rescigno, illustrazioni di Giuliano Della Casa.
Torino, Einaudi (I Millenni) 2012, pp. XXXVIII – 1170, € 90.
Nel 1978 l’Istituto Nazionale di Studi Verdiani diede avvio all’edizione critica dell’epistolario del compositore, tuttora in corso d’opera, ordinato per destinatari e rivolta agli specialisti. Il pregevole volume edito da Einaudi a cura di Eduardo Rescigno è invece una raccolta di settecento lettere, un’antologia che mette in luce le comunicazioni destinate ad amici e amiche, che affrontano temi personali o menzionano fatti salienti contemporanei. Abbiamo intervistato il curatore.
A chi è indirizzato questo lavoro?
Il libro è per chiunque sia interessato a Verdi a 360°: non solo come compositore, ma anche per esempio quale imprenditore, “benefattore”, un uomo comunque molto attento alla realtà sua contemporanea. Chiunque abbia interesse per la vita ottocentesca in Italia dovrebbe leggerlo! Certo vi compaiono gli scambi con i librettisti, ma non è dato grande spazio alla corrispondenza professionale, anche perché Verdi non è molto propenso a parlare di tali faccende via lettera.
Tra le migliaia di lettere del compositore come ha scelto quelle da pubblicare?
Conosco tutte le lettere di Verdi perché è da una vita che lavoro su di lui. Via via che le leggevo mentalmente le selezionavo. Per questa pubblicazione sono partito da circa 2100 lettere su cui è avvenuta la scelta. Il fine è dare un’immagine il più possibile articolata, per far conoscere Verdi in tutte le sue sfaccettature.
Caratteristiche salienti dell’epistolario?
Le lettere sono intere! Non si possono tagliuzzare, se no se ne perde la fisionomia originaria. Quando esistono (nella maggioranza dei casi), esse sono state controllate sugli autografi, insieme all’indispensabile contributo nella trascrizione di Marisa Di Gregorio Casati dell’Istituto Verdiano. Sono disposte in ordine cronologico. Le altre edizioni o si limitano al destinatario (I copialettere di Giuseppe Verdi, di Cesari-Luzio, Forni) o sono divise per argomento (Autobiografia dalle lettere, Aldo Oberdorfer, BUR), qui l’unico filo è la successione temporale.
Che profilo emerge di Verdi dalle lettere?
Innanzitutto l’italiano del compositore: non è perfetto, ma non conta, perché ciò che vuol dire lo dice benissimo, con una scrittura essenziale. È una capacità di sintesi, il “venire al nocciolo”, che riscontriamo anche nelle opere musicali, pressapoco fino all’Aida. Verdi arriva al punto sempre direttamente, senza giri di parole, perciò è, come si diceva a scuola, un buon “libro di lettura”. Rispetto a Donizetti o Bellini, Verdi è un epistolografo dei più leggibili.
C’è una discrepanza fra il Verdi privato (l’uomo) e quello pubblico (il compositore)?
Sì, c’è! Sulle prime le lettere sono un po’ impacciate, Verdi è ancora giovane, ma, leggendo l’epistolario, si capisce che coi primi successi, al tempo del Nabucco, egli si rivela un uomo brillante. Per esempio con Emilia Morosini fa l’uomo di spirito, perché vuole introdursi presso circoli di quasi nobili, di alto livello. Secondo me Verdi fece una proposta matrimoniale alla Morosini e fu respinto. L’esclusione da questi circoli generò in lui un atteggiamento di difesa, “da orso”. Verdi è uno degli uomini più sinceri di questo mondo, ma a un certo punto vuole che non si entri più nel suo mondo e quindi pone degli ostacoli. È un modo per tirarsi fuori dall’agone, denigrando la sua biblioteca musicale, che invece era piuttosto nutrita, o definendosi un autodidatta (stereotipo duro a morire).
Verdi tenne davvero le distanze dalla musica tedesca?
Verdi sembra che dica: lasciamo il sinfonismo ai tedeschi e teniamoci l’opera. In realtà, come noto, la sua biblioteca era piena di musica tedesca, operistica e strumentale, che conosceva a fondo, cosa ben evidente anche solo ascoltando il suo Quartetto per archi.
Il Giornale della Musica, 301, marzo 2013, p. 20.
Roman Vlad: una storia nella musica
Roman Vlad, Vivere la musica. Un racconto autobiografico, a cura di Vittorio Bonolis e Silvia Cappellini
Einaudi editore, Torino 2011, Collana: Super ET,
pp. VI – 239, € 14; e-book € 9,99
Roman Vlad, compositore, pianista, musicologo, anche se a lui non piace definirsi tale (il suo ultimo saggio, su Aleksandr Skrjabin, è uscito da Passigli l’anno scorso), è un grande affabulatore. La sua vita compendia una storia della musica o è una storia nella musica. «Sono immerso nella musica da quando ho memoria di me» è la dichiarazione che apre questo racconto autobiografico.
Qualche anno fa l’ho sentito presentare un concerto (il Sacre di Stravinskij trascritto per pianoforte a quattro mani) nell’ambito del festival MiTo, che a quel tempo si chiamava ancora Settembre Musica, e ho capito: Vlad è un animale da palcoscenico e, quando racconta una storia, ruba la scena a tutti. Gli episodi narrati sono sorprendenti, ma il modo con cui li porge a chi l’ascolta è semplice, diretto, privo di fronzoli.
Da questo libro Einaudi, grazie alla cura di Vittorio Bonolis e Silvia Cappellini, balza fuori quello stesso Vlad che ascoltai a MiTo. In parte, in ogni biografia ci sono fatti, dettagli o sfumature romanzati («la vita raccontata in una certa sequenza non è la vita vissuta», ha scritto Leonardo Vilei), ma qui la serie degli incontri e degli avvenimenti è tale che non può passare inosservata e per capirlo basta scorrere l’indice. Una mirabile sequenza che ricorda la notte al Majestic ricostruita da Richard Davenport-Hines, in cui i coniugi Schiff, ricchissimi inglesi appassionati d’avanguardia, vollero riunire Djagilev, Stravinskij, Picasso, Joyce e Proust, tutti insieme per un’unica volta. La differenza è che nella biografia di Vlad gli incontri eccezionali, le amicizie che nascono e le collaborazioni che si consolidano non sono limitate a una serata, ma costellano la sua intera vita.
In questa storia figurano “quelli che contano”, c’è l’ambiente della critica musicale e dell’establishment culturale (a Roma ci sono, tra gli altri, Luciano Emmer e René Clair per i quali Vlad compose musica da film, Giorgio de Chirico e Gino Severini, Cesare Brandi che duetta al pianoforte con Montale, baritono, oltre che poeta, e poi Renato Guttuso, Giorgio Morandi, Giacomo Manzù, Aldo Palazzeschi), ma su tutti giganteggiano: l’indimenticato maestro Alfredo Casella e l’amico Igor Stravinskij, di cui il Nostro scrisse un’acuta analisi critica nel 1958 (Einaudi).
«Casella era alla guida della sua automobile, un mezzo piuttosto costoso […], si fermò, chiamò [Mascagni] invitandolo a salire a bordo. Mascagni aderì e Casella gli disse: “Sai, questa macchina l’ho appena comprata con i soldi guadagnati in America dirigendo le tue musiche”. Mascagni sarcastico replicò: “Sfido io, lo credo bene, se tu avessi diretto le tue musiche, manco una bicicletta ci compravi!”».
Gli aneddoti sono molti, ma il racconto non è riduttivamente aneddottico. Bonolis e Cappellini cavano da Vlad lo stesso talento di quegli artisti figurativi capaci di tracciare con due linee un profilo incisivo. Un esempio: «Conobbi Boulez nel 1947, quando non era il compositore affermato: aveva una bicicletta e abitava in una torre». Visti da questa prospettiva, i mostri sacri della musica, contemporanea o meno, sono tratteggiati nell’essere uomini, senza nulla togliere alla loro statura artistica. Queste memorie sono anche, naturalmente, la storia dei tanti, eterogenei incarichi che l’autore ha ricoperto, in un mondo musicale e culturale che appare profondamente diverso da quello di oggi. Vlad è ben conscio di questa differenza (e non incomincerò qui il peana dei grandi direttori d’orchestra che un tempo si sentivano dovunque in Italia, e la litania delle orchestre “territoriali” scomparse nel corso degli anni, son cose che si sanno): tra le sue tante attività, si è anche occupato dei problemi connessi con la tutela del copyright, in veste di consulente dell’Ufficio tecnico del Tribunale di Roma per i processi di plagio.
Noto è il suo lavoro al Maggio Musicale Fiorentino, dove chiamò a lavorare il giovane Riccardo Muti, le sue trasmissioni radiofoniche all’avanguardia (su Anton Webern, per esempio) e televisive, come l’indimenticabile ciclo su Arturo Benedetti Michelangeli. Nella parte iniziale, all’autobiografia s’intrecciano le grandi vicende storiche dell’inizio del Novecento: Vlad è nato a Cernăuţi, una cittadina restituita alla Romania nel 1920, occupata prima dai sovietici, poi dai nazisti, oggi in Ucraina, zona di frontiera, crocevia di religioni, culture e lingue, un esempio di pacifica convivenza.
Finisco col primo indelebile flash colto sfogliando per la prima volta il libro. Siamo nel 1939. Busoni è morto da quindici anni, Berg da quattro, Stravinskij è nel pieno del suo periodo neoclassico, Schönberg è emigrato per scampare al nazismo.
Vlad prova l’ammissione all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
«Apparve Casella, che ovviamente non mi conosceva. […] Mi chiese: “Che fai qui, cos’hai in mano? Ah! Busoni!”. “Sì”, risposi. “E lo sai suonare? E che altro hai?” Avevo la Sonata di Berg, la Sonata di Stravinskij e l’op. 19 di Schönberg. Casella, incredulo ma curiosissimo, mi chiese ancora: “Ma tu suoni queste cose? E da dove vieni?” […] “Sai, ˗ mi disse poi, ˗ qui, di solito, queste composizioni non si possono suonare”».
Scritto in origine per la pagina 24letture de Il Sole 24 Ore.com, 30 maggio 2012
Attenti a quei due: l’epistolario Nono-Mila
Nulla di oscuro tra di noi. Lettere 1952-1988
A cura di Angela Ida De Benedictis e Veniero Rizzardi
Il Saggiatore, Milano 2010, pp. 365, € 22
Il carteggio ben testimonia la «reciproca, lunga, per nulla ovvia» amicizia intellettuale che legò Mila a Nono, svelando due personalità di fatto appartenenti a generazioni diverse, che si pongono nei confronti dell’avanguardia musicale europea in modi molto differenti. La corrispondenza prende avvio negli anni ’50 e si trasforma in amicizia un decennio più tardi; sia nelle lettere sia nella visione del mondo, sembra esserci una complementarietà tra i due, anche a livello stilistico: misurato quello di Mila, fuori dalle righe quello di Nono (e a volte sono tirate al vetriolo). Più dei risvolti privati, si legge la storia di un’epoca politica e culturale e in ciò risiede il suo interesse, non solo per chi s’interessa di musica.
Il volume è tripartito: la seconda parte è poi occupata da una selezione di lettere tra Nono, Einaudi e Mila, il quale nella casa editrice svolgeva un ruolo «tanto informale, quanto influente» (integrano le Lettere editoriali del critico musicale uscite come strenna nel 2010); la terza è costituita dagli scritti di Mila sul compositore. L’accuratezza della concezione generale e l’eccellente apparato critico rendono fluida e piacevole la lettura dei documenti che provengono dall’Archivio Luigi Nono di Venezia, dalla Paul Sacher Stiftung di Basilea e dagli archivi Einaudi.
Il Giornale della Musica, 291, aprile 2011, p. 29