In questo nuovo Falstaff coprodotto dalla Royal Opera House, the Canadian Opera Company e la Scala (dove sarà diretto nel 2013 da Harding, con cast in gran parte diverso) Daniele Gatti si conferma un direttore verdiano di grande interesse.
È completamente diverso da qualsiasi altro, questo primo Beethoven Festival (14/18 settembre 2011), nato da una costola dell’International Beethoven Project. Innanzitutto, la pazza idea: mettere insieme la musica, l’arte figurativa, il video, una masterclass, una tavola rotonda sull’iconografia e pure un assaggio di balletto dedicando 5 giorni e 5 notti non-stop a Beethoven. Come? Commissionando un ritratto beethoveniano (foto, olii su tela, disegni, etc) e dei brevi film ad artisti contemporanei e lasciandoli semplicemente sbizzarrire.
Il versante musicale è, se possibile, ancora meglio: focus su generi specifici (la sonata per pianoforte, la trascrizione, la musica orchestrale) e ogni sorta d’inimmaginabile primizia. Qualche esempio: il Quartetto con pianoforte WoO 36 n. 3, la “Kreutzer” prima nella versione classica, poi trascritta per Quintetto d’archi, i Preludi per pianoforte in tutte le tonalità, la Grande Fuga per pianoforte a quattro mani. Dove altro mai, se non a Chicago, si può avere l’occasione di sentire una dopo l’altra tutte queste rarità?
Ma, come se non bastasse, oltre a Beethoven, una notte è stata dedicata a 13 nuovi modi di guardare alle Variazioni Goldberg, una giornata al “Beethoven Today” (musica contemporanea) e ha infine chiuso il festival il geniale progetto di Mischa Zupko che ha commissionato a 20 musicisti americani emergenti dei brani pianistici ispirati dall’Inno alla gioia. In mezzo a tutto ciò, anche una Grande Accademia alla maniera ottocentesca. E, giusto per non farsi mancare niente è arrivato pure l’erede del Principe Galitzine (sì, quello dei Quartetti).
Il festival ha avuto luogo in una location assolutamente cool, alla periferia della città in un edificio ex industriale, oggi Chicago Urban Art Society. Senza dress code, e senza le sciocchezze dell’antiquato rito della sala da concerto, stappata la tua birra ti potevi sedere su una comoda poltrona o su un cuscino e… enjoy! Sponsor privati e generosi donors, hanno reso possibile il sogno di George Lepauw, che non solo è un dotatissimo pianista che ha suonato tutti i giorni con incredibile entusiasmo, ma anche un valido organizzatore, aiutato da un formidabile staff: Molly Feingold, Catinca Tabacaru per l’arte, Krista Johnson e il direttore musicale Robert McConnell. C’è da sperare che un festival così innovativo possa sbarcare in Europa.
“Prometeo, tragedia dell’ascolto” è stata allestita nella barocca Kollegienkirche a diciotto anni di distanza dall’ultima esecuzione salisburghese. In una lettera a Renzo Piano Nono così la definisce: «Non opera / non regista / non scenografo / non personaggi tradizionali / ma drammaturgia-tragedia con suoni mobili che / leggono scoprono / svuotano riempiono lo spazio». Nella chiesa solisti, musicisti, direttore e coro sono disposti lungo il perimetro su impalcature di diversa altezza (notava Nono che nelle chiese le cantorie e gli organi sono sempre a mezza altezza, mai sul pavimento, una pratica concertistica antiacustica attuale).
Da quando il “Prometeo” deve far a meno della struttura di Piano, ideata per la prima veneziana del 1984, l’allestimento va rimodellato sulle peculiarità del luogo dell’esecuzione; la fruizione sarà dunque, ogni volta, unica. Prometeo non ci racconta una storia in musica: il libretto di Cacciari, costituito da testi in greco, italiano, tedesco, si dissolve nel suono. La composizione è in nove parti, ognuna con un diverso organico; vi è una eco dei cori battenti di San Marco: «a sonar e cantar» è scritto in partitura, un riferimento a Andrea e Giovanni Gabrieli; pure la “nuova” realtà microtonale ha per Nono radici nell’antichità (per es. nei canti sinagogali). Elementi centrali sono il timbro e lo spazio, insieme alla trasformazione con il live electronics delle voci e degli strumenti. È visibile lo sforzo richiesto agli interpreti per produrre il suono mobile con la voce e con gli strumenti. Gli ascoltatori seduti nella navata sono letteralmente circondati dall’opera. Metzmacher è lo specialista indiscusso del repertorio, i cantanti solisti brillano per tecnica e bravura, la Schola Heidelberg ha suono cristallino e intonazione celestiale.
A Salisburgo la Donna senz’ombra ambientata a Vienna nel 1955
La “Frau ohne Schatten” di Christof Loy ha sorpreso tutti. Loy accantona completamente il lato favolistico presente in Hofmannsthal ambientando la vicenda in un teatro ottocentesco. Ciò basterebbe a far pensare a una meta-opera. C’è di più. In scena i personaggi in abiti quotidiani stanno in realtà provando la Frau: leggono la parte sul leggìo supervisionati da un regista, contornati da una segretaria, cameriere e sorveglianti. Il senso di straniamento è acuito dal fatto che la rappresentazione ha luogo negli anni ’50, riferimento – non immediatamente comprensibile – alla prima incisione dell’opera realizzata a Vienna nel 1955 sotto la bacchetta di Karl Böhm.
Qui la storia della “Donna senz’ombra” è costretta a emergere solo attraverso la musica. Certo, la grandezza della partitura di Strauss è tale che neanche una regia così anticonvenzionale può ostacolare il suo completo dispiegamento. Il merito è tutto del geniale Christian Thielemann che non delude mai le aspettative. La sua acuta interpretazione, con i Wiener in forma come sempre, mette in luce ogni singolo elemento di forza dell’opera, eseguita senza tagli. Sul versante musicale davvero non si può volere di più; il pubblico salisburghese lo sa e ha accolto con grande calore il direttore d’orchestra. Non altrettanto si può dire del regista che alla fine è stati buati. Di pregio il cast vocale: su tutti svettano la moglie del tintore Evelyn Herlitzius, applauditissima, e la nutrice Michaela Schuster; bravi il gagliardo imperatore Stephen Gould e Wolfgang Koch, il tintore, anche se quest’ultimo non si distingue per presenza scenica; mentre l’imperatrice Anne Schwanewilms ha avuto qualche momento di debolezza. Rachel Frenkel, in abiti maschili, ha saputo conferire il preciso tratto di ineluttabilità alla voce del falco.
Successo al Lingotto per Argerich e Maisky con l’ultima composizione di Shchedrin
Al Lingotto Martha Argerich e Mischa Maisky, come prevedibile, fanno il pienone. Inconsueta è invece l’alternanza di composizioni orchestrali (Scherzo capriccioso di Dvorák, Nona Sinfonia di Shostakovich), del nuovissimo doppio concerto di Shchedrin “Romantic Offering” eseguito dai due solisti e dell’intermezzo cameristico (la Sonata per pianoforte e violoncello di Franck, apice della coesione musicale e del virtuosismo dei due). Nel pezzo brillante di Dvorák la Luzerner Sinfonieorchester, diretta da Neeme Järvi, sfodera le sue qualità, il bel suono rotondo degli archi e un buon assieme.
Il vero protagonista è però il doppio concerto di Rodion Shchedrin, “Romantic Offering”, eseguito per la prima volta il 9 febbraio 2011. Questo brano, composto per Maisky e Argerich, alterna slanci romantici, specie nel violoncello, a un’estrema essenzialità; non mancano tratti jazzistici nel primo movimento, e poi echi della Settima Sonata di Prokofiev e qualche movenza strawinskiana. Il concerto è tagliato sulle qualità dei due solisti come un vestito sartoriale di gran classe: il compositore presente in sala, soddisfattissimo, non la smetteva più di festeggiare gli interpreti. Un pezzo interessante che ci si augura di riascoltare in tempi brevi, perfetto contraltare alla Sinfonia di Sostakovic, dove si è distinta con grinta la primo violino capace di guidare con mano sicura la sua sezione (e nell’assolo): un concerto che ha posto dunque a confronto il recente passato musicale russo (la Sinfonia è del 1945) e il presente. Ma, nonostante tutto, c’è ancora un gruppo sparuto di ascoltatori che di fronte a Shostakovich scappa. Sempre in Russia si resta anche col bis (e qui Järvi sfodera tutta la sua ironia) la delizioso Valse-Fantasie di Glinka.
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