Sempre più spesso mi accorgo che canzoni (relativamente) recenti sono remake. Un po’ ci resto male. Un po’ mi rendo conto – avendo letto Retromaniadi Simon Reynolds – che forse è inevitabile.
Since I Don’t Have You: The Skyliners e i Guns N’ Roses
Close Your Eyes: Al Bowlly e Stacey Kent
My woman / Your woman: Al Bowlly e i White Town
Just a gigolo: Ted Lewis Orchestra e David Lee Roth
Come rain or come shine: Bill Evans Trio e Don Henley
Annette Hanshaw – I Wanna Be Loved By You (1929)
e 30 anni dopo Marylin Monroe in Some Like It Hot (1959)
Interpreti: Martin Grubinger + Percussive Planet Ensemble. Festival di Salisburgo 2013.
Grisey, Le noir de l’étoile
Ishii, Thirteen Drums for percussion solo, Op.66
Abe, The Wave
Cerha, Etoile, for 6 percussionists (world première commissioned by the Salzburg Festival and the Vienna Konzerthaus with the kind assistance of Mr Johannes Baum)
“Prometeo, tragedia dell’ascolto” è stata allestita nella barocca Kollegienkirche a diciotto anni di distanza dall’ultima esecuzione salisburghese. In una lettera a Renzo Piano Nono così la definisce: «Non opera / non regista / non scenografo / non personaggi tradizionali / ma drammaturgia-tragedia con suoni mobili che / leggono scoprono / svuotano riempiono lo spazio». Nella chiesa solisti, musicisti, direttore e coro sono disposti lungo il perimetro su impalcature di diversa altezza (notava Nono che nelle chiese le cantorie e gli organi sono sempre a mezza altezza, mai sul pavimento, una pratica concertistica antiacustica attuale).
Da quando il “Prometeo” deve far a meno della struttura di Piano, ideata per la prima veneziana del 1984, l’allestimento va rimodellato sulle peculiarità del luogo dell’esecuzione; la fruizione sarà dunque, ogni volta, unica. Prometeo non ci racconta una storia in musica: il libretto di Cacciari, costituito da testi in greco, italiano, tedesco, si dissolve nel suono. La composizione è in nove parti, ognuna con un diverso organico; vi è una eco dei cori battenti di San Marco: «a sonar e cantar» è scritto in partitura, un riferimento a Andrea e Giovanni Gabrieli; pure la “nuova” realtà microtonale ha per Nono radici nell’antichità (per es. nei canti sinagogali). Elementi centrali sono il timbro e lo spazio, insieme alla trasformazione con il live electronics delle voci e degli strumenti. È visibile lo sforzo richiesto agli interpreti per produrre il suono mobile con la voce e con gli strumenti. Gli ascoltatori seduti nella navata sono letteralmente circondati dall’opera. Metzmacher è lo specialista indiscusso del repertorio, i cantanti solisti brillano per tecnica e bravura, la Schola Heidelberg ha suono cristallino e intonazione celestiale.
Dopo 14 anni di gestazione ecco la stupefacente Opernphantasie di Rihm.
Su un lago, in barca, N. subisce l’assalto erotico di Arianna (traslato di Cosima Wagner): è la bravissima Mojca Erdmann, voce duttile e cristallina nella tessitura acuta. N. esce dal mutismo con: “Io sono il labirinto”, ma sarà l’Ospite biancovestito a incantare Arianna.
La scenografia è dominata dallo sguardo stilizzato di un essere multiforme, nocciolo della concezione di Meese: è Dio, Nietzsche stesso o un alieno? Poi N. e l’ospite scalano una montagna: più si allontanano da terra, più i loro dialoghi divengono criptici, e Rihm abilmente fa rimpiattino tra i giochi di parole e il loro corrispettivo musicale (ad es. “Nur Narr”, nella terza scena).
In una sorta di metafora interiore, N. parla con l’Ospite come a un alter ego (“Nicht mehr zurück?”), e anche quando il coro irrompe espressionisticamente sembra dar voce al suo delirio paranoico.
La terza scena è bipartita: nel colorato bordello pop N. rifiuta le avances delle 4 prostitute (fantasia erotica opposta rispetto ad Arianna), e intona “Der Wanderer” mentre l’Ospite è al pianoforte: di lì a poco questo verrà fatto a pezzi. Nello scenario onirico c’è circolarità: le stesse parole (“Mich willst du? Ganz?”) pronunciate dalle ninfe, dalle prostitute e poi dall’Ospite, mutano di senso. Attorniato dalle menadi e da tre nutrici, simili a Veneri di Willendorf, N. è scorticato da Apollo, la sua pelle assume una forma autonoma e tutti si ritraggono inorriditi da lui.
L’ultima scena è quella del celebre episodio, ma qui è la pelle, in una piazza, ad abbracciare il cavallo, frustato da una figura senza volto. Composta magistralmente, visionaria, questa è l’opera che vorremmo (ri)vedere nei teatri di tutta Europa.