Intervista a Kaspars Putniņš, Estonian Philharmonic Chamber Choir

Abbiamo intervistato Kaspars Putniņš, direttore artistico e direttore principale del Coro filarmonico estone da camera in occasione del concerto torinese di domenica 13 settembre, con musiche di Arvo Pärt e Morton Feldman.

Benedetta Saglietti: Il coro ha un repertorio immenso, da Pietro Abelardo a Pärt. Come direttore qual è il suo approccio alla musica corale contemporanea?

Kaspars Putniņš: La musica è una grande parte della mia vita e credo che sia molto importante essere in contatto con i compositori del nostro tempo, altrimenti la musica rischia di diventare una sorta di “museo”, o soltanto un bell’ornamento delle nostre vite. Le tendenze della musica contemporanea corale sono molto interessanti.

Coro estone
Photo: Kaupo Kikkas

BS: Quali difficoltà, se ci sono, sperimentano i cantanti nella musica contemporanea in confronto con il repertorio corale classico?

KP: Nella musica contemporanea il suono è certamente molto complicato. Ci sono diversi problemi tecnici, ad esempio, l’intonazione, che richiede uno speciale allenamento. Un altro esempio di difficoltà in questo repertorio è l’esecuzione di musica microtonale. Ma, dopo tutto, la musica è la musica, antica o contemporanea, ciò che conta è il significato, non i problemi tecnici.

BS: Questa è la terza volta che il coro è invitato al festival MiTo Settembre Musica a Torino: era già stato ospite nel 1994 e nel 2004. La seconda volta, al monastero di Bose, il coro interpretò il bel “Kanon Pokajanen”, sotto la bacchetta di Tõnu Kaljuste. La composizione è lunga quasi un’ora e mezza. Ma nel concerto torinese di domenica 13 settembre ci sarà spazio anche per “Rotkho Chapel” di Morton Feldman. Quindi penso suonerete una versione ridotta. Mi dica qualcosa di più in proposito.

KP: Bisogna dire prima di tutto che questo concerto a Torino [lunedì 14 a Milano] è molto speciale. È stato ideato da Enzo Restagno, il direttore artistico di MiTo e credo che la combinazione di questi due pezzi sia un’ottima idea. Di solito suoniamo il “Kanon” da solo. Il “Kanon” ha 9 movimenti che possono essere eseguiti separatamente. Ho dovuto soltanto scegliere la sequenza [Ode I, Ode VI, Kondakion, Ikos, Ode IX, Preghiera dopo il canone], ma certamente oggi suoniamo una versione più breve. I temi più importanti del canone sono preservati nella selezione che ascolteremo.

BS: So che il coro ha una relazione speciale con Arvo Pärt. Mi spieghi questo rapporto speciale che intrattenete con lui.

KP: Come lei sa sono diventato direttore artistico e direttore principale del Coro filarmonico estone da camera solo nel settembre 2014. Naturalmente l’ho incontrato diverse volte. Il coro ha eseguito la maggioranza dei suoi lavori, specialmente con il mio predecessore Tõnu Kaljuste. Abbiamo preso parte alle celebrazioni dell’ottantesimo compleanno di Pärt e a un grande progetto a Tallinn nel maggio 2015, dove c’è stata la prima mondiale della “Adam’s Passion” con musiche di Arvo Pärt e con la regia di Robert Wilson. Riguardo lo speciale legame con Pärt  è semplicemente… la vita! Succede!

BS: Proprio come nella vera cappella (a Houston, in Texas) la composizione di Morton Feldman’ “Rothko Chapel” parla alle persone di ogni credo, indipendentemente dalla loro religione.

In Italia questo pezzo è raramente eseguito (mai prima d’ora a Torino), e qualcuno ritiene che la musica di Feldman possa essere difficile, strana, esoterica. Può commentare brevemente questo lavoro?

KP: Non sono molto a mio agio nel parlare di musica, non sono un musicologo! Descrivere la musica con le parole è talvolta ridurla alle sole parole. Ma la sua musica ha il suo linguaggio!

BS: Intendevo chiederle qualche “chiave” per diventare ascoltatori migliori…

KP: Per prima cosa si dovrebbe rimanere molto concentrati e, allo stesso tempo, aperti alla musica. Devi semplicemente cercare di entrare dentro questo brano. Secondo, questo è un dialogo interiore, esattamente come quando uno parla a se stesso. La viola è la “persona”, la voce principale, in questo pezzo. Terzo, per me questo brano è una contemplazione della vita umana. Qualche volta compaiono dei momenti belli, come il meraviglioso solo del soprano. Quando questi momenti meravigliosi appaiono ti chiedi cosa siano. Non lo so. Forse ricordi d’infanzia. Il lavoro pittorico di Rothko e la musica di Feldman sono, secondo me, non esattamente simili, ma in dialogo fra di loro.

BS: Lei ha diretto questo brano molte volte, quindi sono curiosa: come reagisce il pubblico a questa musica? Che cosa pensa?

KP: Questa particolare combinazione (Arvo Pärt/Morton Feldman) è inusuale, quindi non lo so. Vedremo! Ognuno a delle qualità estetiche veramente peculiari, e spero che il pubblico ci segua in questo viaggio speciale.

BS: Grazie molte per aver messo il suo tempo a disposizione dei nostri lettori e del pubblico e per avermi concesso questa intervista!

Leggi tutta l’intervista, in inglese qui.

Interviewing Rupert Enticknap about his role in Philip Glass’ “Akhnaten”

We had a little chat with Rupert Enticknap about his role in Philip Glass’ opera “Akhnaten”

We had a little chat with Rupert Enticknap about his role in Philip Glass’ opera “Akhnaten”. Questions came from out @mitotorino* followers on Twitter. (*@MiToTorino Twitter account doesn’t exist anymore)

@etsushindam

For a belcanto specialist like you does the minimal music of Glass sound “ancient”?

Rupert Enticknap (RE)

Yes – Glass has created a very strong atmosphere of the ancient! The repetition is very ritualistic and I find some of the large melodic shapes remind me of religious/gregorian chant.

@EmanuelGigante

How difficult is this this role compared to traditional Baroque composers like Handel or Rameau?

R.E.

Technically speaking the difficulty is the vocal repetition often on 1 note or vowel, which is not something that occurs in baroque music. However the aria ‘hymn’ for example is very similar to a slow aria by Handel, as both styles require to sing with great bel canto line and phrasing.

In recent years we have seen several productions of this Opera. It possible that some day Akhenaton will have the same popularity of … let’s say Aida

R.E.

Yes, I believe an opera such as Akhnaten would definitely appeal to audiences who favour ‘grand’ opera, with large choruses and big epic structures telling a story of rise and fall. The music of the opera also is very accessible in that it doesn’t require audiences to ‘understand’ complex atonal harmonies, allowing them to easily adapt to the ‘sound world’ of the story being told.

@Lacritica

Sometimes you dive into the contemporary repertoire (such as Max Richter’s SUM). As a countertenor do you feel at ease with the new music? The differences are really big!

R.E.

I love singing new music! What we forget is that until 100 years ago, musicians were always playing ‘contemporary music’! New music is very important for continuing the history of opera and it is also expanding the repertoire for countertenors. The differences stylistically can be big, and can create challenges, but I approach every repertoire in the same way: bel canto.

@JohnJJohnston

As a performer, how does one go about preparing for a major operatic role such as Glass’ Akhnaten?

R.E.

This part required a lot of studying of the score’s structure and how one can bring shape and meaning to the many repeated motifs and monosyllabic sections. For this I also needed to really understand the context of the story and as much about the figure of Akhnaten in order to establish a sense of character in a concert performance. 

13 settembre 2015, Auditorium Lingotto di Torino “MiTo Torino”

Programma di sala dell’esecuzione milanese, Piccolo Teatro Strehler, 15 settembre 2015

Schönberg e Stravinsky. Storia di un’impossibile amicizia

Schonberg-e-Stravinsky1Enzo Restagno
Schönberg e Stravinsky.
Storia di un’impossibile amicizia

Milano, il Saggiatore, pp. 456, 25 €

Enzo Restagno ha dedicato il suo ultimo libro a una grande coppia di compositori del Novecento.

Mi ha colpito particolarmente come egli passeggi insieme al lettore conducendolo attraverso una serie di luoghi, indicandogli dove si svolsero i fatti, mostrandogli l’arte dell’epoca e, naturalmente, avvolgendolo di musica. Pare che l’autore abbia conosciuto i due di persona, tale è la vivezza del suo racconto… In una fresca mattina torinese mi ha accolta nella sua casa zeppa di libri e dischi.

Leggi tutta l’intervista sul Giornale della musica.

The enigma

 

I colori possono suonare? Un cyborg e un fisico a confronto

La storia di Neil Harbisson, nato a Belfast nel 1982, britannico di cittadinanza spagnola, sembra fantascienza. Harbisson è affetto da acromatopsia, non vede cioè i colori, ma una scala di grigi. Artista (dipinge e suona il pianoforte), nel 2002 s’iscrive al Dartington College of Arts, in Inghilterra, per studiare composizione. Lì incontra Adam Montandon, esperto di cibernetica. Colto da un’intuizione, Harbisson chiede a Montandon se possa aiutarlo a “sentire” i colori.

Non è il primo ad averci pensato. È infatti noto che suoni e colori sono costituiti da frequenze e che si può trovare la frequenza di un suono equivalente a un dato colore. Harbisson per primo ha costruito con Montandon l’eyeborg, un dispositivo che traduce per lui i colori che vede in suoni simili a quelli di un campionatore. Frequenze alte dei colori corrispondono a suoni più acuti: l’eyeborg assomiglia a un cerchietto, al quale è collegata una telecamera che invia i suoni a due auricolari. Dalla prima versione (2003) a quella odierna Harbisson, con Peter Kese e Matias Lizana, ha perfezionato il dispositivo nei suoi aspetti tecnici e da sé ha ideato due scale “sonocromatiche”. La prima, microtonale, era basata su 360 note/colori, quella attuale non logaritmica è ancor più ampia (non sono le stesse corrispondenze usate da Skrjabin per il Prometeo).

Neil_Harbisson,_cyborg
Neil Harbisson

Harbisson ha suscitato curiosità e in breve tempo è diventato una star. Ha cominciato a spiegare l’eyeborg e ha inventato i “ritratti sonori” di personaggi famosi e non, sbarcati nel 2011 pure alla Giudecca 795 Art Gallery di Venezia. Ha difeso il suo diritto a portare l’eyeborg; il permesso richiesto al governo inglese perché la “protesi” fosse ammessa sui suoi documenti, ottenuto dopo molte resistenze, fa di lui un cyborg a tutti gli effetti (a difesa dei quali ha creato una fondazione). Egli afferma che, a parte le difficoltà iniziali (emicranie) e un certo disorientamento sonoro, ora non ne potrebbe far più a meno. Il suo entusiasmo si può vedere in una TED Talk, il popolare format americano di conferenze brevi.

Sul versante musicale Harbisson ha composto il Pianoborg Concerto (2005), in cui un pianoforte interagisce con l’eyeborg, e ora collabora con la coreografa spagnola Moon Ribas, con cui ha ideato il “deviced theatre” che prevede anche la danza: The Sound of the Orange Tree I (2011) e II (2012). Risulta in progress l’opera Sound Rays. Aspettiamo di vederla/ascoltarla in giro per l’Europa.

Da molti anni psicologi, neurologi, psichiatri eccetera hanno invaso pacificamente il campo dei musicisti/musicofili osservando il fenomeno musicale dal punto di vista medico-fisiologico con esiti diseguali. Perché i colori non suonano parrebbe contraddire l’esperienza di Harbisson.  

L’importante opera di Kevin O’Regan, già fisico, direttore del Laboratorio di psicologia della percezione di Parigi, è in realtà soprattutto un libro sull’affascinante complessità della sensazione, più che sul solo udito (il titolo originale Why Red Doesn’t Sound Like a Bell forse lo chiariva meglio). Questo lavoro è un’esplorazione della coscienza, utile per riflettere anche sull’ascolto in relazione agli altri sensi. Che cos’è il rosso e come lo si percepisce? Cosa sono i suoni e quali strumenti abbiamo per descriverli? Perché il racconto di un suono, di un colore o di un odore differisce in modo tanto accentuato (la soluzione alle pagine 156/7)? Domande in apparenza semplici, cui Kevin O’Regan sa fornire articolate risposte con uno stile particolare, tanto raro negli scienziati, che ricorda quello di Oliver Sacks.

Benedetta Saglietti

Il Giornale della Musica, 313, aprile 2014, p. 24

 O'Regan-228x228J. Kevin O’Regan,

Perché i colori non suonano. Una nuova teoria della coscienza.

Milano, Raffaello Cortina editore, pp. 338, 2012, 28 €

Leggi anche: Fatti di musica, la scienza di un’ossessione umana (codice edizioni)

Le lettere di Verdi, l’uomo che parlava senza giri di parole

Giuseppe Verdi, Lettere.

A cura di Eduardo Rescigno, illustrazioni di Giuliano Della Casa.

Torino, Einaudi (I Millenni) 2012, pp. XXXVIII – 1170, € 90.

Nel 1978 l’Istituto Nazionale di Studi Verdiani diede avvio all’edizione critica dell’epistolario del compositore, tuttora in corso d’opera, ordinato per destinatari e rivolta agli specialisti. Il pregevole volume edito da Einaudi a cura di Eduardo Rescigno è invece una raccolta di settecento lettere, un’antologia che mette in luce le comunicazioni destinate ad amici e amiche, che affrontano temi personali o menzionano fatti salienti contemporanei. Abbiamo intervistato il curatore.

A chi è indirizzato questo lavoro?

Il libro è per chiunque sia interessato a Verdi a 360°: non solo come compositore, ma anche per esempio quale imprenditore, “benefattore”, un uomo comunque molto attento alla realtà sua contemporanea. Chiunque abbia interesse per la vita ottocentesca in Italia dovrebbe leggerlo! Certo vi compaiono gli scambi con i librettisti, ma non è dato grande spazio alla corrispondenza professionale, anche perché Verdi non è molto propenso a parlare di tali faccende via lettera.

Tra le migliaia di lettere del compositore come ha scelto quelle da pubblicare?

Conosco tutte le lettere di Verdi perché è da una vita che lavoro su di lui. Via via che le leggevo mentalmente le selezionavo. Per questa pubblicazione sono partito da circa 2100 lettere su cui è avvenuta la scelta. Il fine è dare un’immagine il più possibile articolata, per far conoscere Verdi in tutte le sue sfaccettature.

Caratteristiche salienti dell’epistolario?

Le lettere sono intere! Non si possono tagliuzzare, se no se ne perde la fisionomia originaria. Quando esistono (nella maggioranza dei casi), esse sono state controllate sugli autografi, insieme all’indispensabile contributo nella trascrizione di Marisa Di Gregorio Casati dell’Istituto Verdiano. Sono disposte in ordine cronologico. Le altre edizioni o si limitano al destinatario (I copialettere di Giuseppe Verdi, di Cesari-Luzio, Forni) o sono divise per argomento (Autobiografia dalle lettere, Aldo Oberdorfer, BUR), qui l’unico filo è la successione temporale.

Che profilo emerge di Verdi dalle lettere?

Innanzitutto l’italiano del compositore: non è perfetto, ma non conta, perché ciò che vuol dire lo dice benissimo, con una scrittura essenziale. È una capacità di sintesi, il “venire al nocciolo”, che riscontriamo anche nelle opere musicali, pressapoco fino all’Aida. Verdi arriva al punto sempre direttamente, senza giri di parole, perciò è, come si diceva a scuola, un buon “libro di lettura”. Rispetto a Donizetti o Bellini, Verdi è un epistolografo dei più leggibili.

C’è una discrepanza fra il Verdi privato (l’uomo) e quello pubblico (il compositore)?

Sì, c’è! Sulle prime le lettere sono un po’ impacciate, Verdi è ancora giovane, ma, leggendo l’epistolario, si capisce che coi primi successi, al tempo del Nabucco, egli si rivela un uomo brillante. Per esempio con Emilia Morosini fa l’uomo di spirito, perché vuole introdursi presso circoli di quasi nobili, di alto livello. Secondo me Verdi fece una proposta matrimoniale alla Morosini e fu respinto. L’esclusione da questi circoli generò in lui un atteggiamento di difesa, “da orso”. Verdi è uno degli uomini più sinceri di questo mondo, ma a un certo punto vuole che non si entri più nel suo mondo e quindi pone degli ostacoli. È un modo per tirarsi fuori dall’agone, denigrando la sua biblioteca musicale, che invece era piuttosto nutrita, o definendosi un autodidatta (stereotipo duro a morire).

Verdi tenne davvero le distanze dalla musica tedesca?

Verdi sembra che dica: lasciamo il sinfonismo ai tedeschi e teniamoci l’opera. In realtà, come noto, la sua biblioteca era piena di musica tedesca, operistica e strumentale, che conosceva a fondo, cosa ben evidente anche solo ascoltando il suo Quartetto per archi.

Il Giornale della Musica, 301, marzo 2013, p. 20.